Edito da Magi Edizioni nella collana "Il bestiario psicologico", Il gatto e i suoi simboli, dell'analista junghiano Claudio Widmann, è un viaggio affascinante che intende esplorare (attraverso i secoli e per mezzo di determinate categorie) l'archetipo del gatto e, più in generale, della "felinità".
Partendo dagli antichi culti egizi di Bastet e di Sekhmet, Widmann passa in rassegna dapprima gli stereotipi riferiti al gatto (la sua tendenza alla separatività; i suoi contatti con il mondo "altro" o "infero"; la sua invereconda sensualità ecc.) e successivamente, in una trattazione più estesa, le reali peculiarità del gatto come archetipo e simbolo.
Il gatto viene presentato innanzi tutto come creatura che ha «natura intrinsecamente femminile» (si pensi a Bastet, a Freya... ma anche all'abusato nesso gatto/strega) e che con le donne intrattiene da molto tempo un rapporto stretto e biunivoco, che spesso mette in difficoltà l'uomo e la sua naturale tendenza al controllo, al dominio. I gatti, come le donne, si rivelano sfuggenti, capaci di slanci di assoluta abnegazione (l'istinto materno forte, potente, da far risalire alla Magna Mater), di estrema sensualità, di indifferenza e perfino di crudeltà: «[...] proprio la potenza dell'Anima desta nell'uomo il timore che il gatto, come la donna, non lo ubbidisca a sufficienza e non lo ami abbastanza».
Widmann si sofferma poi su un'altra caratteristica peculiare del gatto: quella di vivere costantemente in limine e di presentarsi dunque come un perfetto "guardiano di soglia". La sua capacità di adattarsi tanto alla vita domestica quanto a quella selvatica, il suo essere sonnolento durante il giorno e attivo durante la notte, il suo alternare momenti di vigilanza a momenti di sonno profondo... queste e molte altre qualità ci fanno comprendere come il gatto viva costantemente in limine e veicoli, perciò, la «possibilità di coltivare stati di coscienza abitualmente inaccessibili».
Non solo guardiano, comunque - e non sempre e solo una figura "d'Ombra". Anzi (come molti gattofili hanno sperimentato sovente in prima persona!), il gatto è anche (e soprattutto) soccorritore, iniziatore e guida: Widmann attinge dalla letteratura e dal folklore (dalla fiaba del Gatto con gli stivali all'usanza del Maneki Neko, passando attraverso leggende arabe e giapponesi) per illustrare i tratti simbolici più rassicuranti (e spesso più trascurati dall'immaginario collettivo) di questo animale misterioso e affascinante, che da millenni affianca la nostra esistenza in silenzio e con discrezione.
Claudio Widmann
Il gatto e i suoi simboli
Magi Edizioni
Roma, 2012
Pagg. 164
domenica 5 luglio 2015
venerdì 28 marzo 2014
Le celebrazioni del risveglio: le Antesterie
Testa di Dioniso - Grecia, I sec. a.C. |
Durante il primo giorno (chiamato Πιϑοιγία, Pithoigia) venivano aperti i grandi contenitori (pithoi) in cui era conservato il vino; nel secondo giorno (Χόες) si svolgevano gare tra bevitori; e, infine, a chiusura della festa (nel giorno detto dei Χύτροι, delle "marmitte"), si offrivano doni a Ermes ctonio, guida delle anime dei morti.
Si tratta di una celebrazione in limine, che consacra l'avvicendarsi della vita e della morte: se, infatti, le gare di bevute rimandano a un clima di spensierata gaiezza, è altresì vero che le Antesterie erano considerate un periodo infausto dalla popolazione ateniese: in quei giorni, tutte le porte dei templi cittadini venivano sbarrate e su di esse era spalmata della pece. Solo il Limnaion (dedicato a Dioniso) restava aperto e venivano celebrati i morti e le Chere, divinità femminili che simboleggiavano la fatalità della morte e il procedere inarrestabile del ciclo della vita. Le case venivano ornate con rami di biancospino, allo scopo di tenere lontane le anime irrequiete dei defunti.
Si preparavano inoltre delle cotture di cereali, che dovevano essere consumate prima del tramonto. Una volta sopraggiunta la notte, si recitava la frase: «Fuori, demoni: le Antesterie sono terminate!». La benevolenza di Ermes psicopompo, infatti, faceva sì che le anime dei morti, al termine della celebrazione, ritornassero nell'oltretomba - senza più arrecare disturbo ai vivi.
«"Coraggio, divo nocchiero, al mio cuore carissimo, / sono io Dioniso tonante che fece la madre / cadmeide Semele, nell'amore di Zeus congiunta." / Salve, figlio di Semele bel viso: non lice in alcun modo / di te comporre di nascosto il dolce canto» (Inno omerico a Dioniso I, nella traduzione di Cesare Pavese)
domenica 2 febbraio 2014
Suggestioni per la Candelora 2014
Quest'anno voglio procedere per immagini...
Ritengo infatti che questa Candelora (l'ultima - fra l'altro - che trascorro nella mia Vecchia Casa) sia particolarmente ricca di connessioni e rimandi. Delicati, a volte persino "pericolosi"; ma innegabili.
Ritengo infatti che questa Candelora (l'ultima - fra l'altro - che trascorro nella mia Vecchia Casa) sia particolarmente ricca di connessioni e rimandi. Delicati, a volte persino "pericolosi"; ma innegabili.
Un doveroso e lieto risveglio per tutt*... :)
lunedì 23 dicembre 2013
Saturnalia
Secondo la tradizione, dopo essere stato detronizzato dal figlio Giove, il dio Saturno fu relegato su un'isola, dove dimora eternamente addormentato, avvolto in bende di lino: quando si sveglierà e rinascerà, segnerà l'inizio di una nuova età e di un nuovo mondo.
Per questo motivo la statua del dio presente nel tempio ai piedi del Campidoglio era anch'essa avvolta in bende, che venivano sciolte e tagliate in occasione dei Saturnalia, festività invernali che si svolgevano a Roma nel periodo corrispondente ai giorni fra il 17 e il 24 dicembre.
"Sciogliere il dio" significava liberarne la forza antica - forza che è ambivalente, in quanto Saturno è il dio dell'ombra e della luce, della fine e dell'inizio.
Al pari di Giano, egli ha un volto duplice, che guarda al caos e al cosmo al tempo stesso.
Perciò i Saturnalia erano la festività "del rovesciamento", in cui l'ordine conosciuto era sovvertito, per lasciare spazio a una nuova dimensione comunitaria: gli schiavi erano temporaneamente liberati ("sciolti dai loro vincoli", esattamente come Saturno), ci si scambiavano doni, si festeggiava con grande euforia e veniva eletto un re-burla, come accadeva (secoli più tardi) nelle Feste dei Folli medievali.
Si attuava, insomma, un vero e proprio rovesciamento, una "vita carnevalesca" (per dirla con Bachtin) basata sull'abolizione dell'ordinamento gerarchico, la mescolanza dei valori e dei fenomeni e la profanazione (oscenità, scherzi volgari...).
Proprio in funzione di questa sua duplicità, il carnevalesco è ambivalente e rappresenta in un'unica occasione le facce opposte di un'unica medaglia. Per questo le festività dei Saturnalia, per quanto sfrenate e goliardiche, contengono una suggestione riflessiva: celebrando la vita, si rammenta la morte - alla quale si giunge attraverso i rituali dedicati al "dio nero" Saturno, in un kyklos destinato a ripetersi.
Per questo motivo la statua del dio presente nel tempio ai piedi del Campidoglio era anch'essa avvolta in bende, che venivano sciolte e tagliate in occasione dei Saturnalia, festività invernali che si svolgevano a Roma nel periodo corrispondente ai giorni fra il 17 e il 24 dicembre.
"Sciogliere il dio" significava liberarne la forza antica - forza che è ambivalente, in quanto Saturno è il dio dell'ombra e della luce, della fine e dell'inizio.
Rea porge a Crono una pietra fasciata, facendogli credere che si tratti del figlio Giove appena nato |
Perciò i Saturnalia erano la festività "del rovesciamento", in cui l'ordine conosciuto era sovvertito, per lasciare spazio a una nuova dimensione comunitaria: gli schiavi erano temporaneamente liberati ("sciolti dai loro vincoli", esattamente come Saturno), ci si scambiavano doni, si festeggiava con grande euforia e veniva eletto un re-burla, come accadeva (secoli più tardi) nelle Feste dei Folli medievali.
Si attuava, insomma, un vero e proprio rovesciamento, una "vita carnevalesca" (per dirla con Bachtin) basata sull'abolizione dell'ordinamento gerarchico, la mescolanza dei valori e dei fenomeni e la profanazione (oscenità, scherzi volgari...).
Proprio in funzione di questa sua duplicità, il carnevalesco è ambivalente e rappresenta in un'unica occasione le facce opposte di un'unica medaglia. Per questo le festività dei Saturnalia, per quanto sfrenate e goliardiche, contengono una suggestione riflessiva: celebrando la vita, si rammenta la morte - alla quale si giunge attraverso i rituali dedicati al "dio nero" Saturno, in un kyklos destinato a ripetersi.
«Il riso rituale era rivolto a qualcosa di superiore: si beffeggiava e rideva il sole (dio supremo), gli altri dei, il supremo potere terrestre, per costringerli a rinnovarsi e rigenerarsi. Tutte le forme di riso rituale erano legate alla morte e alla risurrezione, all'atto della riproduzione, ai simboli della forza produttiva. Il riso rituale reagiva alle crisi nella vita del sole [...], alle crisi nella vita della divinità, nella vita del mondo e dell'uomo (riso funebre). In esso la derisione si fondeva col giubilo.» (Michail Bachtin)
Saturnalia |
sabato 21 dicembre 2013
Verso il bianco: il Solstizio e le fiabe della consapevolezza
Sono giornate di luce e biancore: ogni mattina, la nebbia nella prima parte del tragitto che compio in macchina ogni giorno, per recarmi al lavoro; e poi il sole, che rompe il velo per ciò che rimane della strada.
Istintivamente, in questo periodo non faccio che pensare (meglio: sentire) il colore bianco.
Bianco di coltre (nevosa, fredda; e ancora... il bianco lattiginoso della nebbia... e quello purissimo della brina): tutto mi riporta al sonno, a quella delicatezza di cui ho parlato spesso e che tanto mi è cara.
Il bianco è, per eccellenza, lux in tenebris. Colore dei morti e, al contempo, della rinascita.
Un interessante studio di Simone Rambaldi, pubblicato su Grisendaonline nel 2001, propone all'attenzione del lettore alcune raffigurazioni romane dell'Oltretomba, rinvenute in un edificio sull'Esquilino (databili 50-40 a.C.), sulla tomba di Patron (I sec. a.C.) e sulla tomba degli Octavii (III sec. d.C.).
Si tratta di scene molto luminose (soprattutto la bellissima decorazione della tomba di Patron, la cui parte centrale era occupata dalla raffigurazione di un lussureggiante spazio naturale, abitato da piante e uccelli e pervaso da una luce rassicurante), che ci trasmettono l'immagine di una vita gioiosa nell'aldilà - almeno per coloro che in vita si sono comportati rettamente.
Lux in tenebris, appunto: anche nella "morte" del periodo solstiziale è possibile trovare la luce, la "ragione" che rende necessaria la nekya.
Compiamo un viaggio periglioso per crescere, per rinascere, per acquisire nuova consapevolezza.
Quest'anno, ho voluto concentrarmi sulle fiabe. Da Barbablù a Cappuccetto Rosso; da Vassilissa e la Baba Jaga a Rosabianca e Rosarossa... Si tratta di storie che raccontano un percorso difficile, capace di portare alla rigenerazione solo attraverso un cammino periglioso nella Terra dei Morti.
Cammina nel "bosco oscuro" facendosi luce con un teschio la coraggiosa Vassilissa, dopo aver ricevuto la sua iniziazione dalla Baba Jaga (e dopo aver ricevuto in dono una consapevolezza basata sulla "giusta misura" e sull'equilibrio); arriva a sanguinare la sposa di Barbablù (e «niente riusciva a fermare il sangue» che usciva dalla chiave), prima di ribellarsi dall'oppressione dello sposo-bestia che la minaccia: «Di consapevolezza... morirai»; e la Fanciulla senza braccia si veste di bianco (il colore dei morti) per affrontare un lungo e difficile vagabondaggio, che la condurrà alla rinascita.
Il significato di questa fase "declinante" del cammino ciclico dovrebbe essere proprio questo: scendere in un n(l)uminoso e bianco oltretomba, sostenere e comprendere la luce "dei morti" per risorgere a nuova vita quando sarà tempo.
Se devo essere sincera, questa è la prima volta che concepisco il Solstizio come una parentesi di luce (per quanto fredda essa possa essere...), anziché come un tragitto in osbcuro. Ne sono lieta, mi piace... (Ri)vedo il sole in fondo al sentiero, all'interno della mia casa - dove potrò infine ritrovarmi.
Istintivamente, in questo periodo non faccio che pensare (meglio: sentire) il colore bianco.
Bianco di coltre (nevosa, fredda; e ancora... il bianco lattiginoso della nebbia... e quello purissimo della brina): tutto mi riporta al sonno, a quella delicatezza di cui ho parlato spesso e che tanto mi è cara.
Ricostruzione della decorazione della tomba di Patron |
Un interessante studio di Simone Rambaldi, pubblicato su Grisendaonline nel 2001, propone all'attenzione del lettore alcune raffigurazioni romane dell'Oltretomba, rinvenute in un edificio sull'Esquilino (databili 50-40 a.C.), sulla tomba di Patron (I sec. a.C.) e sulla tomba degli Octavii (III sec. d.C.).
Si tratta di scene molto luminose (soprattutto la bellissima decorazione della tomba di Patron, la cui parte centrale era occupata dalla raffigurazione di un lussureggiante spazio naturale, abitato da piante e uccelli e pervaso da una luce rassicurante), che ci trasmettono l'immagine di una vita gioiosa nell'aldilà - almeno per coloro che in vita si sono comportati rettamente.
Lux in tenebris, appunto: anche nella "morte" del periodo solstiziale è possibile trovare la luce, la "ragione" che rende necessaria la nekya.
Compiamo un viaggio periglioso per crescere, per rinascere, per acquisire nuova consapevolezza.
Quest'anno, ho voluto concentrarmi sulle fiabe. Da Barbablù a Cappuccetto Rosso; da Vassilissa e la Baba Jaga a Rosabianca e Rosarossa... Si tratta di storie che raccontano un percorso difficile, capace di portare alla rigenerazione solo attraverso un cammino periglioso nella Terra dei Morti.
La fiaba di Barbablù illustrata da © Paolo Savelli |
Norvegia, casa con betulla Foto di © Orsa Isbjørn |
Se devo essere sincera, questa è la prima volta che concepisco il Solstizio come una parentesi di luce (per quanto fredda essa possa essere...), anziché come un tragitto in osbcuro. Ne sono lieta, mi piace... (Ri)vedo il sole in fondo al sentiero, all'interno della mia casa - dove potrò infine ritrovarmi.
mercoledì 30 ottobre 2013
La retta castigatrice: alla Baba Jaga e a Hine-nui-te-po
«Quale follia rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.
E ora, addio: sono trascinata dentro la profonda notte,
E ora, addio: sono trascinata dentro la profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti.»
(Virgilio, Georgiche, IV, 493-497)
Non bisogna avere paura di vedere; ma occorre possedere la consapevolezza che esistono diversi tipi di sguardo. Quello di Orfeo verso Euridice è uno sguardo impaziente; è un'occhiata inesperta, che arriva nel luogo e nel momento sbagliati. Guardare senza discernimento (a sproposito, diremmo) è pericoloso: oltre ad Orfeo, ce l'ha insegnato bene Perseo - a cui, non a caso, Atena insegna la saggezza attraverso lo specchio.
Dan Hiller |
Calenda ci invita a vedere con saggezza. E' il percorso disagevole (in obscuro) che dobbiamo intraprendere per risorgere ciclicamente a nuova vita - per ritornare al Sole. Non dobbiamo temere le vie più tortuose: spesso, sono le uniche in grado di salvarci.
Perciò, voglio dedicare la ricorrenza di quest'anno (per me così "ricco"!) alle Donne che hanno avuto la forza e il coraggio di aguzzare la vista - affinché sia di buon auspicio e per non dimenticare mai l'importanza dell'istinto, delle percezioni "da nulla", dei "piccoli" segnali.
Donne come Vassilissa, che senza troppi patemi si inoltra con la sua bambola (di nuovo lo sguardo "raddoppiato" - e dunque più forte - come nel mito di Medusa) nella foresta, a incontrare la Baba Jaga: strega temibile, certo; ma che, alla fine, lascerà libera Vassilissa proprio in virtù della sua saggezza.
Perciò, voglio dedicare la ricorrenza di quest'anno (per me così "ricco"!) alle Donne che hanno avuto la forza e il coraggio di aguzzare la vista - affinché sia di buon auspicio e per non dimenticare mai l'importanza dell'istinto, delle percezioni "da nulla", dei "piccoli" segnali.
Donne come Vassilissa, che senza troppi patemi si inoltra con la sua bambola (di nuovo lo sguardo "raddoppiato" - e dunque più forte - come nel mito di Medusa) nella foresta, a incontrare la Baba Jaga: strega temibile, certo; ma che, alla fine, lascerà libera Vassilissa proprio in virtù della sua saggezza.
Il sonno di Vassilissa: immagine di © Adrienne Segur |
O come Hine-nui-te-pō, dea "edipica" del pantheon maori, che, secondo la leggenda, divenne signora degli Inferi dopo aver scoperto (dopo anni di inconsapevolezza!) di aver sposato il proprio padre, Tane: la nuova conoscenza la conduce verso l'oscuro, ai sentieri bui che è necessario percorrere per esistere, nel vero senso della parola.
Mi piacciono queste divinità in limine: mai inutilmente crudeli, ma garanti di equilibrio, di armonia fra luce e ombra - madri e al contempo dispensatrici di giustizia, quando necessario. Più di qualsiasi altra immagine mi danno conforto e "centratura".
Hine-nui-te-pō, di © June Northcroft Grant |
Nello specifico, Hine è madre, madre dei morti e vagina dentata (ovvero retta castigatrice) e realizza alla perfezione quel ciclo di Vita/Morte/Vita che sta alla base del processo della nigredo. Il che la ricollega anche alla stessa Baba Jaga, a chiusura di un cerchio archetipico di morte-e-risurrezione del femminino: «Baba Jaga incute paura perché rappresenta il potere di annientamento e quello della forza vitale. Osservare la sua faccia significa vedere la vagina dentata, occhi di sangue, il neonato perfetto e le ali degli angeli, tutto insieme» (C. Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, p. 78).
sabato 19 ottobre 2013
Considerazioni sul buio
Immagine di © Amanda Clark |
Purtroppo, tutta questa positiva frenesia, questo "non saper smettere di ronzare" non trova corrispondenza in ciò che accade fuori - oltre la soglia di casa.
Stiamo vivendo tempi oscuri - tempi osceni, che non si traducono mai in pretesti «per una bella metafora, per una sorprendente analogia, per un paradossale contrasto» (G. Almansi, L'estetica dell'osceno).
[Nota a margine: oppure, forse, è proprio ciò che dovremmo fare? Trasformare l'osceno in poesia - e dunque in maghéia - per superare indenni questo periodo di tenebra, per rendere prolifico l'oscuro e salvarci?]
Sono osceni e basta.
Penso all'odio razziale (alimentato giorno dopo giorno dall'ignoranza di chi non legge, non sa e non conosce - da chi si lascia abbindolare da notizie false e tendenziose); penso alla violenza di genere (spudorata come non mai); penso alle recrudescenze naziste che hanno fatto bello sfoggio di sé in occasione della morte del macellaio Priebke...
Quanti altri esempi potremmo aggiungere?
Quella che si avvicina sarà una Calenda particolare. Dovremo essere attenti a compiere i passi giusti, ad ascoltare e raccogliere i segni. Dovremo aguzzare tutti i sensi (trasformandoci in animali selvatici) - per salvarci. Poco importa se, per farlo, dovremo distruggere, cancellare e allontanare da noi ciò che non ha più senso di esistere:
«La Madre della Creazione è sempre anche la Madre della Morte, e viceversa. Per via di questa natura duale, o duplice compito, il grande lavoro che ci aspetta è quello di imparare a comprendere quanto attorno a noi e su di noi e dentro di noi deve vivere, e che cosa deve morire. Il nostro lavoro consiste nell'apprendere il ritmo di entrambe le cose, consentire a ciò che deve morire di morire, e a ciò che deve vivere di vivere» (C. Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, p. 10).In questo periodo di con-fusione dobbiamo essere guerrieri e determinati: né le Norne né le Parche si sono mostrate clementi, ogni volta che il filo doveva essere reciso. Ebbene, noi dovremo fare altrettanto. Scendere a compromessi, accettare il silenzio, di questi tempi può voler dire perdersi definitivamente...
(1) Scritto all'inizio della scorsa primavera: molto tempo fa... Del resto, se ho abbandonato questo blog, è stato per potermi dedicare con maggiore energia al mio blog personale, sul quale ho iniziato a trattare temi inerenti al sessismo e alla violenza di genere: doveroso, vista la guerra spietata del patriarcato contro le donne!