venerdì 15 gennaio 2010

Della Nera e dell'Eclissi

[...] Migliaia di pesci passeggiano per aria, migliaia di stelle nel tuo sangue. Galline gialle vanno su e giù per le scale di Cnosso. Il bel funambolo cambia la sua liscia asta d'equilibrio con un giglio. Ogni cosa attende di prendere e donarsi. [...]

(G. Ritsos, da Il funambolo e la luna)


Radunati al Bosco della Cittadella per l'eclisse del 3/4 marzo 2008.

Difficile esprimere a parole la gioia assoluta e un po' frenetica per questa giornata e per la notte che sta per arrivare.
Oggi, infatti, non solo arriverà la Nuova (dal buio, ancora la Vita che riprende: la danza di Eurinome che ricomincia - eterna sarabanda!), ma è anche il giorno della più lunga Eclissi del millennio, che concluderà il 141° ciclo di Saros.
Fra i punti di osservazione migliori per questa eclisse anulare ci sarà anche l'India, dove l'avvenimento coincide con la rituale festa indù del Magh Mela.
Secondo questo rito, la cui origine si perde nei tempi più antichi, le immersioni nei fiumi Gange, Yamuna e Saraswati consentono ai fedeli di purificarsi e di spezzare il ciclo di morte e rinascita.
L'Inizio per eccellenza, dunque. In concomitanza con la Nuova e con l'Eclissi.
Come sempre, inseguo il filo rosso nell'intreccio più fitto, alla ricerca di simboli e segnali.
E questo, in particolare, è troppo fulgido per essere ignorato.
Stiamo risalendo la china, la Madre Lunare ci indica la strada...


Una bella Madonna "lunare" fotografata da Gabriele in Israele.

sabato 9 gennaio 2010

Ein jeder Engel ist schrecklich


Il bellissimo angelo di Tilda Swinton in Constantine, di Francis Lawrence.

Chi, se io gridassi, mi udirebbe mai dalle schiere degli angeli ed anche se uno di loro al cuore mi prendesse, io verrei meno per la sua più forte presenza. Perché il bello è solo l'inizio del tremendo, che sopportiamo appena, e il bello lo ammiriamo così perché incurante disdegna di distruggerci. Ogni angelo è tremendo. [...]

(R. M. Rilke, Elegie duinesi, I, vv. 1 - 8.)

Non sono mai riuscita a considerare gli angeli come le classiche creature codificate dalla religione cristiana, tutte fulgore e perfezione celeste, benevole soccorritrici degli uomini in questa "valle di lacrime".
Anche perché, a dirla tutta, neppure gli angeli presentati dalla Bibbia sono questo.
Certo, l'angelo di Tobia è il custode per eccellenza.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi (e nei casi più affascinanti, capaci di soggiogarci e toglierci la parola) gli angeli sono dei combattenti. Sterminatori, se la volontà divina lo vuole e lo ordina.

L'angelo rappresenta, più di ogni altra creatura metafisica, l'irruzione (spaventosa, mortifera) dell'Altro, della dimensione dell'ou-topia (il non-luogo, quello inaccessibile alla mente umana, pena il dilagare della follia) nella realtà dell'uomo, la manifestazione «tremenda del limite, che affligge, insuperabile, ogni umano Dasein» (M. Cacciari, L'angelo necessario).
Per questo, la sua bellezza è tale da sconfinare nell'orrore: così come l'eccesso di luce provoca cecità al pari del buio, allo stesso modo la perfezione angelica diviene mostruosa - e l'angelo (portatore del "messaggio ultimo e terribile") può essere assimilato ai grandi mostri mitologici: Medusa, le Erinni, le Sirene, le Arpie...
Il fascino di questi custodi dell'Eterno è potentissimo, le connessioni che li legano agli archetipi fondanti delle più antiche religioni innegabili, folgoranti.
Per anni ho seguito le loro tracce attraverso saggi letterari e antropologici, poesie, romanzi e pellicole cinematografiche: perfino nelle più mediocri fra queste ultime ho scoperto figure angeliche abbaglianti.
E ancora oggi - sebbene mi stia soffermando in questo periodo su altri campi d'indagine - non riesco a restare insensibile alla potenza irradiata dal Gabriele dell'Annunciazione di Grunewald, dipinto ammirato dal vero lo scorso dicembre, al Museo Unterlinden di Colmar.


L'Annunciazione di Grunewald

La reazione della Madonna, di fronte a lui, non consente equivoci: annientata dalla sua luce, non riesce ad alzare lo sguardo sul messaggero. E' costretta, anzi, a volgere il capo all'indietro e a socchiudere le palpebre, mentre Gabriele (avvolto da vesti rosse e gialle, i colori del fuoco) punta su di lei un dito inquisitorio, quasi minaccioso: il suo messaggio, a ben vedere, non pare essere fra i più rassicuranti.

Andando a scavare a ritroso nel tempo, nella letteratura così come nei testi religiosi (sia cristiani sia dell'antichità pre-cristiana), non si può non notare la somiglianza fra gli angeli e la mater perniciosa: la capacità di folgorare, riducendo in cenere ogni forma di vita (e la cenere è sempre cessazione di vita e, al contempo, nuovo inizio); la connessione stretta con i volatili (di gufi, civette e rapaci diurni ho già parlato); la facoltà di condurre la morte attraverso lo sguardo. (La morte è negli occhi, come scriveva Cesare Pavese.) Infine, la padronanza intrinseca di un linguaggio (il "parlare angelico"), che sovrasta l'umano intelletto e che rende qualsiasi dialogo fra Uomo e Angelo impossibile, pena la sopraffazione del primo da parte del secondo:

Non credere che io supplichi. Angelo, e se anche ti supplicassi! Tu non vieni.

(R. M. Rilke, Elegie duinesi)

Suggestioni
• R. M. Rilke, Elegie duinesi.
Massimo Cacciari, L'angelo necessario, Adelphi: saggio fondamentale per la comprensione e l'interpretazione delle Elegie duinesi di R. M. Rilke.
L'angelo sterminatore di Luis Buñuel, del 1962: autentico capolavoro del regista spagnolo, dove l'angelo mai appare e mai viene menzionato - eppure la sua potenza domina tutto il film, recando morte e disperazione.
The Prophecy - The God's Army, film diretto da Gregory Widen nel 1995: una pellicola tutt'altro che perfetta (sebbene abbastanza originale), che ha come protagonisti proprio tre angeli, tutti con interessanti caratteristiche: ciechi, alati, votati unicamente (o quasi) all'obbedienza. Viene fra l'altro affrontato il tema, squisitamente apocrifo, dell'invidia degli angeli verso gli uomini.


La locandina de L'angelo sterminatore di Luis Buñuel.

«Tutta un'esistenza passata a lodare Dio, ma sempre con un'ala intinta nel sangue. Credi che ti piacerebbe davvero vedere un angelo?»

(Dal film The Prophecy, di Gregory Widen, 1995)

sabato 19 dicembre 2009

Dei guardiani del tempo

I rapaci sono per me i guardiani del tempo, l'ho scritto qualche giorno fa.
Insieme ai felini (grandi e piccoli), ai serpenti e agli squali, sono fra gli animali che maggiormente mi affascinano e ai quali sento di essere legata (spesso in maniera incomprensibile) da un filo rosso.

(Non si tratta di amare un animale... Amo il mio cane, che è fonte inesauribile di gioia, amo i miei gatti... Ma quando parlo di legame indissolubile intendo qualcosa di ancestrale, di emozionante e sconvolgente, che riguarda una particolare specie e non un singolo esemplare. Quell'ineffabile miscuglio di sensazioni possenti e inebrianti che mi coglie quando scorgo il volo di un falco o ammiro l'appostamento di una leonessa, pronta allo scatto...)

I rapaci, dicevo.


La poiana che incontro ogni mattina andando a lavorare: il suo saluto silenzioso è quasi un monito a saper attendere...

Il primo vero "incontro" con questi predatori lo ebbi sette o otto anni fa, quando ancora abitavo in città. Ero in giro con Mickey per il mio quartiere, quando, rientrando, mi accorsi di una bianca presenza appollaiata su uno dei rami più bassi della pianta che cresceva nel piccolo giardino condominiale dei vicini.
Era un barbagianni: bianco e impassibile, uno spettro in una notte di maggio.
Mickey, come me stupito di trovare un simile animale nel nostro rumorosissimo quartiere, ha sollevato lo sguardo per osservarlo meglio (la coda e le orecchie dritte, ma senza abbaiare: come me, il mio cane sembrava pieno di rispetto per questa candida apparizione) e il barbagianni ha ricambiato, seguendoci senza muoversi - finché non siamo scomparsi dalla sua vista.

Conservo ancora oggi intatto il ricordo di questa epifania.
Da allora, ho cominciato a documentarmi in maniera quasi febbrile su gufi e barbagianni, ricercandoli di notte, sulle colline.
Quando mi sono trasferita in paese, ho scoperto con gioia l'esistenza - all'ingresso del centro abitato - di un albero secolare che, all'inizio della primavera, si copre di nitticore, garzette, gufi e barbagianni. Sentirli gridare nella notte, incuranti dei pochi passanti che attraversano la piazza, è un'esperienza che non si può descrivere con semplici parole, in un post.

Le apparizioni dei rapaci, diurni e notturni (ormai purtroppo decimati dall'inquinamento delle nostre campagne), rappresentano un segnale, un signum.
Poiché pochi altri animali concentrano in sé la volontà e i ritmi della Signora dei Crocicchi.
Vita e morte (come dimenticare il falchetto che, due anni fa, venne ad uccidere un passero proprio nel mio cortile? Per quanto triste sia stato per me lavare il sangue del povero animaletto dalle piastrelle davanti all'uscio di casa, lessi quell'improvvisa irruzione nella calura estiva come un manifestarsi folgorante dell'altro), estate e inverno, oscurità e luce, tutto essi indicano con silenzioso riserbo - per chiunque sappia comprendere il linguaggio eterno che va oltre le parole.
In questa stagione (che da sempre vivo con poca serenità, nella smaniosa attesa del ritorno del Sole e della Pienezza), la mia guida è una poiana: rapace diurno, non a caso.
La vedo ogni mattina, recandomi al lavoro; appollaiata sopra un cartello segnaletico, un palo della luce, oppure ritta in mezzo a un campo.
L'ultima apparizione è stata proprio in mezzo alla neve: il suo piumaggio fulvo, in mezzo al biancore accecante della campagna immacolata era un vero e proprio monito - un inno al prossimo risveglio...

martedì 15 dicembre 2009

Della parola e della forma

Leggendo Magia e medicina popolare in Piemonte, di Massimo Centini ~ Appunti, pensieri

«"Zitto!" mi rispose quello "Sei solo un ragazzo e per di più straniero, perciò giustamente non ti rendi conto che sei in Tessaglia e qui da tutte le parti le streghe dilaniano a morsi i volti dei cadaveri; è una pratica fondamentale della loro arte magica." E io, a mia volta: "E dimmi, per piacere, che cos'è questa storia di custodire i cadaveri?" "Prima di tutto" mi rispose "bisogna vegliare con la massima attenzione per tutta la notte, tenendo gli occhi ben aperti, anzi, spalancati e sempre fissi sul cadavere, e non si deve mai distogliere lo sguardo, anzi neanche volgerlo poco poco, perché quelle terrificanti creature sono capaci di cambiar forma e, una volta mutato il loro aspetto in quello di un animale qualunque, di infilarsi dentro di nascosto, al punto che riuscirebbero a ingannare persino l'occhio del Sole e della Giustizia! Infatti prendono le sembianze di uccelli o di cani, di topi e persino di mosche. A quel punto, con le loro terribili cantilene, sprofondano nel sonno i guardiani. [...]"»

(Apuleio, Metamorphoseon libri XI, 21-22)


Lamia, immagine da Google

Della forma e della parola, quindi - come già annotava Apuleio.

Le streghe piemontesi (che con le striges romane hanno legami di parentela più stretti di quanto non si pensi) vengono comunemente definite masche.
Il termine deriva strettamente dal latino larva, "pelle", "cuoio": per estensione del termine, i materiali con cui venivano fabbricate le maschere.
Per questo motivo larva, per i Romani, indicava la maschera dai tratti deformi e spaventosa. E ancora: lo spirito malvagio di un trapassato (spesso con sembianze scheletriche), opposto ai benevoli Lari.

Due sono le caratteristiche primarie della "maschera", che le masche erediteranno: la facoltà metamorfica riguardante l'aspetto e quella riguardante la voce. Mutato il volto, anche la voce cambia: diventa strido o cantilena; borbottìo diabolico o formula magica.

«[...] Talamasca sarebbe una maschera che borbotta o parla in modo strano come uno spirito o un ossesso.»

(P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino 1976, p. 169.)

Come gli spiriti e gli indemoniati (come i poeti e i veggenti!), le streghe sono detentrici di un potere altro, di una vista acuta e particolarissima: il loro linguaggio non può che essere deforme nella perfezione.

«Il corpo è fatto di sillabe.»

(La fattucchiera Lidia)

E nello stesso modo deforme è il loro aspetto:

«[...] quando arriva la festa delle calende di gennaio [...] non permettete che vengano in corteo, davanti a casa vostra, mascherati da cervi, da streghe, da qualunque bestia; rifiutate di dar loro la strenna, biasimateli, correggeteli e, se potete, impedite loro di agire così.»

(Cesario di Arles, Sermones au peuple)

La metamorfosi è unica e sdoppiata...

(Sull'importanza della parola nella maghéia antica.)

lunedì 14 dicembre 2009

Della poiana e dell'aconito

Me ne sono già lamentata sui miei blog "pubblici", quelli che ho scelto di collegare al mio vero nome (e non domandatemi perché non l'abbia fatto anche con questo... Forse desideravo soltanto conservare un ultimo lembo di foresta vergine...): da quando mi hanno spostata d'ufficio sono irritabile, scontenta, nervosa.
Intendiamoci: il lavoro in città e in ufficio non è il massimo, per chi sogna un rapporto costante con la Natura, un rallentamento dei ritmi, un ascolto costante della voce della Magna Mater.
Tuttavia devo ammettere che, nella mia vecchia postazione, la qualità umana del lavoro che svolgevo era davvero soddisfacente: si produceva (come si suole dire oggi) in armonia e amicizia, lavorando con entusiasmo e solidarietà indiscussa insieme ai colleghi.
Oggi, nelle nuove tre stanze (caotiche, frenetiche) che mi sono state assegnate, mi sento in gabbia.
D'accordo, sono riuscita a mettere i paletti necessari: innanzi tutto si tratta di una situazione transitoria (il 31 dicembre scadrà il contratto ma, con tutte le ore di straordinario accumulate durante la Festa del Vino, potrò restare a casa fin dal 21); e poi ho scelto (decrescita felice!) di rimetterci dal punto di vista economico guadagnandoci in benessere e ho preferito un tranquillo "part-time" a un logorante "tempo pieno".

Intanto, la stagione del Rigore incede inesorabile, lenta e incurante.
La Natura dorme. Faccio fatica a coglierne il silenzio, in questi giorni di baccano pre-natalizio. Eppure a tratti trapela - perfino qui, in paese.
Ogni mattina, mentre vado a lavorare, scorgo la poiana a margine del campo. Sempre lo stesso campo, ogni mattina.
I rapaci sono i custodi del tempo, mi dico spesso.
Ogni mattina rallento, la guardo: lei non si sposta. Ricambia la mia attenzione.
So che in primaverà la vedrò di rado. Lontanza e ri-unione.

Come la poiana, anche il mio piccolo aconito sfida l'Oscurità, nella serra.
Cresce testardo, contro ogni previsione.
Ho temuto di non vederlo spuntare: del resto, la semina tardiva era stata solo un esperimento. Metà dei semi li avevo conservati per la prossima primavera.
E invece... Eccolo, minuscolo, beffardo.
Anche le sue piccole foglie sembrano lanciarmi un monito, un richiamo di appartenenza.

Devo proseguire, senza perdermi...



Una poiana in volo, da Google. Ma spero di riuscire a fotografare presto la "mia" poiana!

sabato 28 novembre 2009

Della magia delle parole - Parte II

Se per maghéia intendiamo la facoltà (poietica) di manipolazione e di com-prensione del reale, diventa imperativo stabilire quali debbano essere le caratteristiche della parola che e-mettiamo, e dunque quale sia il nostro ruolo di "aedi".
Il termine "poesia" (non bisogna mai dimenticarlo) deriva dal verbo greco "poièo", che significa "invento", "compongo"; ma anche "produco", "faccio": creo.
In passato i poeti hanno avuto un ruolo ben preciso nella storia e nella società: da contestatori a vati, hanno saputo quale via percorrere e additare ai posteri.
E oggi?
Tenta di dare una risposta Gary Snyder, poeta e ambientalista.
Ho trovato le sue parole sul blog di Renato e mi sono parse illuminanti: se ritornare alla Terra, alla Magna Mater, potrà rappresentare una salvezza per tutti, a maggior ragione lo sarà per il poeta-sciamano, per il mago e per la strega. Dando voce, noi possiamo modificare e creare, erigere cattedrali del pensiero, superando lo sgretolarsi del sensum...

«Una parte del lavoro del poeta oggi è essere testimone. Siamo testimoni di quello che sta succedendo. Il testimone forse può cambiare le cose, forse può fermare le cose, forse può fornire un modello alternativo, oltre a far conoscere al mondo ciò che sta succedendo. Siamo testimoni del comportamento distruttivo della modernità globale, del capitalismo che avanza e della dissacrante alleanza tra tecnologia ed egoismo. […] Poi c’è un altro ruolo più antico, che è quello del guaritore, il ruolo dello sciamano, che implica l’andare oltre l’essere un semplice testimone e cioè diventare una voce in contatto con le altre forme viventi, che parla per la natura, ma anche per i diseredati e al gente povera della terra. Parlare per gli altri che non hanno voce.»


Mariella Loro, L'aedo

giovedì 29 ottobre 2009

Il Guardiano del Bosco chiama

Il Guardiano del Bosco chiama. La sua voce è nella mia testa e fra i rami del castagno. Mi raccomanda prudenza, ma al tempo stesso mi esorta a compiere il mio dovere.
Per Calenda saremo al Bosco della Partecipanza.
Quella notte le nostre case saranno invase dai sussurri.

«La mia casa è piena di ospiti. Ma chi sono veramente costoro?»

Da ragazzine, Mara e io ripetevamo spesso questa frase. La trascrivevamo sul frontespizio dei libri di Poe e di Maupassant, già allora soggiogate dalla potenza del Trapasso e del Ritorno.
A casa lasceremo doni per spettri e defunti e gli animali saranno guardiani e testimoni della danza meravigliosa.
Quanto a noi, cammineremo fra i sentieri nella notte e tutto il Bosco festeggerà con noi l’avvento e la morte.

Per i cani che latreranno al Suo passaggio…
Per la Signora dalle nere sottane…
Per noi, streghe, creature di furore e di terra…



Ecate protettrice delle strade celebro, trivia, amabile,
celeste e terrestre e marina, dal manto color croco,
sepolcrale, baccheggiante, con le anime dei morti,
figlia di Perse, amante della solitudine, superba dei cervi,
notturna, protettrice dei cani, regina invincibile,
annunciata dal ruggito delle belve, senza cintura, d'aspetto imbattibile,
domatrice di tori, signora che custodisce tutto il cosmo.

(Inno orfico ad Ecate)