lunedì 23 dicembre 2013

Saturnalia

Secondo la tradizione, dopo essere stato detronizzato dal figlio Giove, il dio Saturno fu relegato su un'isola, dove dimora eternamente addormentato, avvolto in bende di lino: quando si sveglierà e rinascerà, segnerà l'inizio di una nuova età e di un nuovo mondo.
Per questo motivo la statua del dio presente nel tempio ai piedi del Campidoglio era anch'essa avvolta in bende, che venivano sciolte e tagliate in occasione dei Saturnalia, festività invernali che si svolgevano a Roma nel periodo corrispondente ai giorni fra il 17 e il 24 dicembre.
"Sciogliere il dio" significava liberarne la forza antica - forza che è ambivalente, in quanto Saturno è il dio dell'ombra e della luce, della fine e dell'inizio.
Rea porge a Crono una pietra fasciata,
facendogli credere che si tratti
del figlio Giove appena nato
Al pari di Giano, egli ha un volto duplice, che guarda al caos e al cosmo al tempo stesso.
Perciò i Saturnalia erano la festività "del rovesciamento", in cui l'ordine conosciuto era sovvertito, per lasciare spazio a una nuova dimensione comunitaria: gli schiavi erano temporaneamente liberati ("sciolti dai loro vincoli", esattamente come Saturno), ci si scambiavano doni, si festeggiava con grande euforia e veniva eletto un re-burla, come accadeva (secoli più tardi) nelle Feste dei Folli medievali.
Si attuava, insomma, un vero e proprio rovesciamento, una "vita carnevalesca" (per dirla con Bachtin) basata sull'abolizione dell'ordinamento gerarchico, la mescolanza dei valori e dei fenomeni e la profanazione (oscenità, scherzi volgari...).
Proprio in funzione di questa sua duplicità, il carnevalesco è ambivalente e rappresenta in un'unica occasione le facce opposte di un'unica medaglia. Per questo le festività dei Saturnalia, per quanto sfrenate e goliardiche, contengono una suggestione riflessiva: celebrando la vita, si rammenta la morte - alla quale si giunge attraverso i rituali dedicati al "dio nero" Saturno, in un kyklos destinato a ripetersi.
«Il riso rituale era rivolto a qualcosa di superiore: si beffeggiava e rideva il sole (dio supremo), gli altri dei, il supremo potere terrestre, per costringerli a rinnovarsi e rigenerarsi. Tutte le forme di riso rituale erano legate alla morte e alla risurrezione, all'atto della riproduzione, ai simboli della forza produttiva. Il riso rituale reagiva alle crisi nella vita del sole [...], alle crisi nella vita della divinità, nella vita del mondo e dell'uomo (riso funebre). In esso la derisione si fondeva col giubilo.» (Michail Bachtin)
Saturnalia

sabato 21 dicembre 2013

Verso il bianco: il Solstizio e le fiabe della consapevolezza

Sono giornate di luce e biancore: ogni mattina, la nebbia nella prima parte del tragitto che compio in macchina ogni giorno, per recarmi al lavoro; e poi il sole, che rompe il velo per ciò che rimane della strada.
Istintivamente, in questo periodo non faccio che pensare (meglio: sentire) il colore bianco.
Bianco di coltre (nevosa, fredda; e ancora... il bianco lattiginoso della nebbia... e quello purissimo della brina): tutto mi riporta al sonno, a quella delicatezza di cui ho parlato spesso e che tanto mi è cara.

Ricostruzione della decorazione
della tomba di Patron
Il bianco è, per eccellenza, lux in tenebris. Colore dei morti e, al contempo, della rinascita.
Un interessante studio di Simone Rambaldi, pubblicato su Grisendaonline nel 2001, propone all'attenzione del lettore alcune raffigurazioni romane dell'Oltretomba, rinvenute in un edificio sull'Esquilino (databili 50-40 a.C.), sulla tomba di Patron (I sec. a.C.) e sulla tomba degli Octavii (III sec. d.C.).

Si tratta di scene molto luminose (soprattutto la bellissima decorazione della tomba di Patron, la cui parte centrale era occupata dalla raffigurazione di un lussureggiante spazio naturale, abitato da piante e uccelli e pervaso da una luce rassicurante), che ci trasmettono l'immagine di una vita gioiosa nell'aldilà - almeno per coloro che in vita si sono comportati rettamente.
Lux in tenebris, appunto: anche nella "morte" del periodo solstiziale è possibile trovare la luce, la "ragione" che rende necessaria la nekya.
Compiamo un viaggio periglioso per crescere, per rinascere, per acquisire nuova consapevolezza.

Quest'anno, ho voluto concentrarmi sulle fiabe. Da Barbablù a Cappuccetto Rosso; da Vassilissa e la Baba Jaga a Rosabianca e Rosarossa... Si tratta di storie che raccontano un percorso difficile, capace di portare alla rigenerazione solo attraverso un cammino periglioso nella Terra dei Morti.

La fiaba di Barbablù illustrata da © Paolo Savelli
Cammina nel "bosco oscuro" facendosi luce con un teschio la coraggiosa Vassilissa, dopo aver ricevuto la sua iniziazione dalla Baba Jaga (e dopo aver ricevuto in dono una consapevolezza basata sulla "giusta misura" e sull'equilibrio); arriva a sanguinare la sposa di Barbablù (e «niente riusciva a fermare il sangue» che usciva dalla chiave), prima di ribellarsi dall'oppressione dello sposo-bestia che la minaccia: «Di consapevolezza... morirai»; e la Fanciulla senza braccia si veste di bianco (il colore dei morti) per affrontare un lungo e difficile vagabondaggio, che la condurrà alla rinascita.

Norvegia, casa con betulla
Foto di © Orsa Isbjørn
Il significato di questa fase "declinante" del cammino ciclico dovrebbe essere proprio questo: scendere in un n(l)uminoso e bianco oltretomba, sostenere e comprendere la luce "dei morti" per risorgere a nuova vita quando sarà tempo.
Se devo essere sincera, questa è la prima volta che concepisco il Solstizio come una parentesi di luce (per quanto fredda essa possa essere...), anziché come un tragitto in osbcuro. Ne sono lieta, mi piace... (Ri)vedo il sole in fondo al sentiero, all'interno della mia casa - dove potrò infine ritrovarmi.


mercoledì 30 ottobre 2013

La retta castigatrice: alla Baba Jaga e a Hine-nui-te-po

«Quale follia rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.
E ora, addio: sono trascinata dentro la profonda notte,
 
e non più tua, tendo a te le mani inerti.»
(Virgilio, Georgiche, IV, 493-497)

Non bisogna avere paura di vedere; ma occorre possedere la consapevolezza che esistono diversi tipi di sguardo. Quello di Orfeo verso Euridice è uno sguardo impaziente; è un'occhiata inesperta, che arriva nel luogo e nel momento sbagliati. Guardare senza discernimento (a sproposito, diremmo) è pericoloso: oltre ad Orfeo, ce l'ha insegnato bene Perseo - a cui, non a caso, Atena insegna la saggezza attraverso lo specchio.

Dan Hiller


Calenda ci invita a vedere con saggezza. E' il percorso disagevole (in obscuro) che dobbiamo intraprendere per risorgere ciclicamente a nuova vita - per ritornare al Sole. Non dobbiamo temere le vie più tortuose: spesso, sono le uniche in grado di salvarci.
Perciò, voglio dedicare la ricorrenza di quest'anno (per me così "ricco"!) alle Donne che hanno avuto la forza e il coraggio di aguzzare la vista - affinché sia di buon auspicio e per non dimenticare mai l'importanza dell'istinto, delle percezioni "da nulla", dei "piccoli" segnali.
Donne come Vassilissa, che senza troppi patemi si inoltra con la sua bambola (di nuovo lo sguardo "raddoppiato" - e dunque più forte - come nel mito di Medusa) nella foresta, a incontrare la Baba Jaga: strega temibile, certo; ma che, alla fine, lascerà libera Vassilissa proprio in virtù della sua saggezza.

Il sonno di Vassilissa: immagine di © Adrienne Segur
O come Hine-nui-te-pō, dea "edipica" del pantheon maori, che, secondo la leggenda, divenne signora degli Inferi dopo aver scoperto (dopo anni di inconsapevolezza!) di aver sposato il proprio padre, Tane: la nuova conoscenza la conduce verso l'oscuro, ai sentieri bui che è necessario percorrere per esistere, nel vero senso della parola.
Mi piacciono queste divinità in limine: mai inutilmente crudeli, ma garanti di equilibrio, di armonia fra luce e ombra - madri e al contempo dispensatrici di giustizia, quando necessario. Più di qualsiasi altra immagine mi danno conforto e "centratura".

Hine-nui-te-pō, di © June Northcroft Grant
Nello specifico, Hine è madre, madre dei morti e vagina dentata (ovvero retta castigatrice) e realizza alla perfezione quel ciclo di Vita/Morte/Vita che sta alla base del processo della nigredo. Il che la ricollega anche alla stessa Baba Jaga, a chiusura di un cerchio archetipico di morte-e-risurrezione del femminino: «Baba Jaga incute paura perché rappresenta il potere di annientamento e quello della forza vitale. Osservare la sua faccia significa vedere la vagina dentata, occhi di sangue, il neonato perfetto e le ali degli angeli, tutto insieme» (C. Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, p. 78).

sabato 19 ottobre 2013

Considerazioni sul buio

Immagine di © Amanda Clark
Questi tempi non mi piacciono. Nel mio ultimo post (1), avevo parlato di Luce e di Sole - perché luce e sole sono ciò che mi guidano in questa fase del percorso. Anche nei momenti di passaggio... Sono piena di idee, di progetti che riguardano sia la mia vita privata sia il mio lavoro (che adoro).
Purtroppo, tutta questa positiva frenesia, questo "non saper smettere di ronzare" non trova corrispondenza in ciò che accade fuori - oltre la soglia di casa.
Stiamo vivendo tempi oscuri - tempi osceni, che non si traducono mai in pretesti «per una bella metafora, per una sorprendente analogia, per un paradossale contrasto» (G. Almansi, L'estetica dell'osceno).

[Nota a margine: oppure, forse, è proprio ciò che dovremmo fare? Trasformare l'osceno in poesia - e dunque in maghéia - per superare indenni questo periodo di tenebra, per rendere prolifico l'oscuro e salvarci?]

Sono osceni e basta.
Penso all'odio razziale (alimentato giorno dopo giorno dall'ignoranza di chi non legge, non sa e non conosce - da chi si lascia abbindolare da notizie false e tendenziose); penso alla violenza di genere (spudorata come non mai); penso alle recrudescenze naziste che hanno fatto bello sfoggio di sé in occasione della morte del macellaio Priebke...
Quanti altri esempi potremmo aggiungere?


Quella che si avvicina sarà una Calenda particolare. Dovremo essere attenti a compiere i passi giusti, ad ascoltare e raccogliere i segni. Dovremo aguzzare tutti i sensi (trasformandoci in animali selvatici) - per salvarci. Poco importa se, per farlo, dovremo distruggere, cancellare e allontanare da noi ciò che non ha più senso di esistere:
«La Madre della Creazione è sempre anche la Madre della Morte, e viceversa. Per via di questa natura duale, o duplice compito, il grande lavoro che ci aspetta è quello di imparare a comprendere quanto attorno a noi e su di noi e dentro di noi deve vivere, e che cosa deve morire. Il nostro lavoro consiste nell'apprendere il ritmo di entrambe le cose, consentire a ciò che deve morire di morire, e a ciò che deve vivere di vivere» (C. Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, p. 10).
In questo periodo di con-fusione dobbiamo essere guerrieri e determinati: né le Norne né le Parche si sono mostrate clementi, ogni volta che il filo doveva essere reciso. Ebbene, noi dovremo fare altrettanto. Scendere a compromessi, accettare il silenzio, di questi tempi può voler dire perdersi definitivamente...

(1) Scritto all'inizio della scorsa primavera: molto tempo fa... Del resto, se ho abbandonato questo blog, è stato per potermi dedicare con maggiore energia al mio blog personale, sul quale ho iniziato a trattare temi inerenti al sessismo e alla violenza di genere: doveroso, vista la guerra spietata del patriarcato contro le donne!

mercoledì 6 marzo 2013

Children of the Sun: solarità e poiesi



«Tendono alla chiarità le cose oscure...» (E. Montale, Ossi di seppia)

Noi non sappiamo il futuro. Jodorowsky diceva che, nel momento stesso in cui fossimo capaci di vederlo, lo staremmo già modificando - o creando.
Non è compito nostro essere "divini": la pena maggiore, per chi si crede sempre vincente e incorruttibile (quante persone simili incontriamo nella nostra vita quotidiana?), è quella descritta da Primo Levi nel bellissimo racconto Angelica farfalla. Chiunque voglia trasformarsi in angelo, diventa un monstrum. Prodigioso, senz'altro, ma dis-torto.
A noi non resta che l'intuizione, il guizzo di luce, il baleno, la "chiarità a cui tendono le cose oscure", rivelandosi - ma per un attimo soltanto, e solo per indicarci la Via.
Per questo siamo nel Sole. E se non ci siamo, con tutte le nostre forze dovremmo tentare di tornare alla luce - disfandoci ora della terra, sollevando i nostri calcagni che per lungo tempo (per molti mesi - oppure per intere fasi della nostra esistenza) sono stati ben piantati nel fango, nella Regione d'Inverno.

E se è innegabile che l'eccesso di luce provoca cecità (come ci ha raccontato Saramago e ha ripetuto Montale descrivendo "rivi strozzati" dalla calura e "terreni bruciati dal salino"), è pur vero che, mantenendo dalla Luce la giusta distanza e calibrando bene il Sole quanto l'Ombra, il femminile e il maschile, il cosmo e il caos, sarà possibile mantenere animus e anima in equilibrio perfetto...
L'equilibrio, dopotutto, altro non è che la gestione positiva dell'energhéia che, se mal indirizzata, assume le forme (discutibili) del relativismo o del fanatismo.
La poesia, in questo senso, ha un'importanza fondamentale:

«Oltre al significato grammaticale del linguaggio, ce n'è un altro, un significato magico, che è l'unico che ci interessa... Il poeta crea, fuori dal mondo esistente, il mondo che dovrebbe esistere... Il valore del linguaggio della poesia dipende direttamente dalla sua lontananza dal linguaggio parlato... Il linguaggio si trasforma in un cerimoniale di esorcismo e si presenta nel lucore della sua iniziale nudità, aliena da ogni abito convenzionale previamente stabilito... La poesia non è altro che l'ultimo orizzonte, che, a sua volta, è il crinale in cui gli estremi si toccano, dove non esiste né contraddizione né dubbio. [...] Nella sua voce c'è un incendio inestinguibile.» (Vincente Huidobro)

Ancora la parola poetica, ancora la po(i)esi. Sarà un caso, che entrambe ritornino in questi tempi di confusione ideologica, mentale... e anche linguistica? In quest'epoca in cui tutti sembrano aver paura di (auto)definirsi, desiderando sempre di essere "altro" rispetto a ciò che sono in realtà? L'attuale utilizzo disonesto del linguaggio (come lo definiva Steiner) non conduce alla "Luce", bensì "all'oscurità e alla pazzia": «Nessuna menzogna è troppo grossa per non essere espressa con accanimento. Se non riusciremo a restituire alle parole dei nostri giornali, delle nostre leggi e dei nostri atti politici una certa dose di chiarezza e di rigore di significato, la nostra vita si avvicinerà ancora di più al caos» (G. Steiner, Linguaggio e silenzio) e saremo destinati, letteralmente, a "morire di silenzio"...

mercoledì 23 gennaio 2013

La saggezza nel silenzio: Accabadora

Screeshot dal video di La fille damnée di C. Corbel.
Sul mio "blog pubblico" (quello meno... discreto, su cui scrivo firmandomi con nome e cognome) oggi ho pubblicato una recensione di Accabadora di Michela Murgia, romanzo che da tempo avevo in mente di leggere e che tratta di una figura particolarissima del folklore sardo: quella dell'"ultima madre", ovvero colei che accompagna i malati alla morte, attraverso l'eutanasia.
Non è mia intenzione ripetere qui quanto già scritto. Vorrei solo annotare, su queste pagine, il passaggio che ritengo più significativo per la comprensione dell'opera e chi si ricollega (meravigliosamente) con quanto sto sentendo/studiando/valutando in questo periodo a ridosso della Candelora...

«Vuoi giudicare del come senza capire il perché? Tu hai sempre fretta di emettere sentenze, Maria.»
«Non sono io che ho fretta, anzi. Se le cose devono accadere, al momento giusto accadono da sole.»
La vecchia si tolse lo scialle bruscamente, lasciandolo cadere senza grazia sulla sedia. Gli occhi scuri fissarono Maria con una certa severa impazienza. [...]
«Accadono da sole...» mormorò, sorridendo senza alterigia. «Sei nata tu forse da sola, Maria? Sei uscita con le tue forze dal ventre di tua madre? O non sei nata con l'aiuto di qualcuno, come tutti i vivi?»

«Io ho sempre...» Maria accennò a replicare, ma Bonaria la fermò con un gesto imperioso della mano.
«Zitta, non sai cosa dici. Ti sei tagliata da sola il cordone? Non ti hanno forse lavata e allattata? Non sei nata e cresciuta due volte per grazia di altri, o sei così brava che hai fatto tutto da sola? [...] Altri hanno deciso per te allora, e altri decideranno quando servirà di farlo. Non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada, Maria, e tu dovresti saperlo più di tutti. [...] Non mi si è mai aperto il ventre e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imparato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve. Anche io avevo la mia parte da fare, e l'ho fatta.»
«E quale parte era?»
«L'ultima. Io sono stata l'ultima madre che alcuni hanno visto.»
(M. Murgia, Accabadora, p. 116-117)
A mio avviso, però, la frase più bella di tutto il romanzo è quella, apparentemente insignificante, in cui si parla del lutto portato da Maria per la sua madre adottiva Bonaria: «Come le aveva insegnato Nonaria, Maria Listru Urrai indossò il lutto con discrezione». Le "madri" dovrebbero sempre insegnarci il valore del silenzio. E noi dovremmo sempre saperle ascoltare.

mercoledì 16 gennaio 2013

Intermezzo-perché-sì


Grazie perché sono nata proprio quel giorno.
Grazie per la "torre" in cui posso sempre rinchiudermi, allontanandomi dalle brutture del mondo.
Grazie per i miei dubbi e per tutto ciò che ancora non conosco e che ho da scoprire.
Grazie per il mio Amore.
Grazie per la campagna in cui vivo.
Grazie perché sono proprio così - e non diversa.
Grazie per le mie parole.
Grazie per la voglia di ridere.
Grazie per i fiori di digitale e per lo stramonio che cresce abbondante nel mio giardino.
Grazie per tutti coloro che mi amano e che sanno esserci con discrezione.
Grazie per la discrezione stessa.
Grazie per ciò che (non) sono.
Grazie per la ciclicità di questi anni.
Grazie per il percorso che - fino a qui - ho saputo compiere da sola.

Ora si prosegue.

martedì 8 gennaio 2013

Che cos'è, dunque, la perfezione?


«La perfezione è terribile, non può avere figli», scriveva Sylvia Plath, sintentizzando con parole lucide e dolorose l'accezione negativa del termine.
Anche a me piace poco la parola "perfezione": mi rievoca una sterilità angelica, un'anoressica tensione al corpo immacolato, l'infelicità profonda di chi aspira al cielo (come dimenticare Angelica farfalla di Primo Levi?).
Non credo affatto all'adamantina perfezione di chi:
- si spaccia per "maestro", senza neppure rendersi conto di stare annaspando lungo il proprio cammino;
- si incolla sul volto maschere create ad hoc (la Dura e la Perennemente-Incazzata; l'Assolutamente-Coerente-con-i-propri-Princìpi; e, per contro, la Fata Buona e la Principessa-Senza-Macchia);
- chi è pronto ad aggredire e (quel che è peggio) a giudicare e non spreca tempo a com-prendere;
- chi coltiva in casa la malinconia e, per sopportarla, passa al setaccio le esistenze altrui.
Questa perfezione è pericolosa per chiunque - figurarsi per chi ha intrapreso il sentiero della maghéia, della fìsica... Perché streghe e masche sono da sempre le imperfette per eccellenza: sono coloro che zoppicano, coloro che non vedono e che vivono ai margini, in limine... A volte peregrine tenaci nel mondo concreto, "reale", e a volte disperse nell'Oltre - al di là del velo.

Non per ripetermi, ma ci troviamo di nuovo ad affrontare il discorso del viaggio attraverso le acque morte. Viaggio che ciclicamente ci si ripropone e che linearmente, di fatto, occupa tutta la durata della nostra vita terrena.

Le donne, in teoria, dovrebbero essere maestre nell'arte dell'im-perfezione:
«Avrebbero voluto catturarla e fargliela pagare, ma per legare una donna lupo ci vuole una catena fatta con rumore di passo di gatto, barba di bambino, respiro di pesce e latte d'uccello» (L. Pariani, La valle delle donne lupo, p. 184).
Purtroppo, non tutte le donne sono donne-lupo e per questo, molte di noi scelgono di piegare il capo di fronte al potere maschile, di indossare la maschera per compiacere, per omologarsi, per raggiungere la perfezione - ingannevole, sterile, infida. Ambiscono a diventare senza macchia per affermarsi in un mondo che le vuole spose e angeli del focolare; oppure, al contrario, virago sempre e comunque combattive - o, meglio, incattivite.
«[...] lingua sciolta è all'uso delle beghine; l'uomo nelle situazioni difficili più risparmia la lingua e meglio avanza verso il suo scopo. Chiaro che lo diceva perché era maschio; agli uomini non piace se le donne parlano; epperciò loro tiran fuori sempre sentenze dei seculòrum per convincere le donne a tacere» (p. 186).
Taci e abbassa il capo di fronte a chi è più forte di te. A chi conosce l'arte del sopruso, del bavaglio, della calunnia e dell'infliggere dolore. Di fronte ai "maschi" (che poi, s'intende, non sono tutti uguali...) e al potere costituito: la Chiesa, ad esempio - che nei secoli ha soffocato tra fuoco e fiamme chiunque scegliesse di intraprendere quello che ormai mi piace chiamare "il sentiero degli zoppi".
Ebbene, a questo tipo di potere e alla mancata realizzazione di (molte, purtroppo!) persone che credono di trovare la felicità indossando costumi di cartapesta, io ho capito di preferire la perfetta imperfezione di chi ha imparato a convivere coi propri difetti, senza lasciarsi mai sconfiggere da questi ultimi; di chi sa ascoltare nell'oscurità per poi risplendere con maggiore fulgore nella luce; di chi "sa di non sapere"; di chi non si preoccupa troppo di ergersi a inquisitore ma, piuttosto, considera con un sorriso le miserie altrui e prosegue sulla propria strada - perché sa che la meta è lontana, il cammino è arduo e tortuoso e non c'è tempo da perdere in chiacchiere.


Mai come in questo periodo (di caos e di paura globali) c'è bisogno di leggerezza, di silenzio, di bellezza. C'è bisogno del potere forte della memoria - unica bussola possibile nei momenti di smarrimento. Occorre avere ben presenti di quale percorso siamo figli e ad esso attenerci, costi quel che costi. La ricompensa, se avremo lavorato bene, non tarderà ad arrivare.

venerdì 4 gennaio 2013

Il cammino imperfetto

Ovvero il tempo dell'airone


La ruota gira e questo per me è il tempo dell'airone.
Nella zona dove vivo ce ne sono davvero tanti, compagni silenziosi delle mie giornate. Li vedo dalla finestra dello studio, passo accanto a loro durante le mie passeggiate fra i campi... Ricordo che un pomeriggio il mio caro Mickey ebbe uno scontro con uno di loro: il mio piccolo cane rosso si era fatto sotto abbaiando e l'airone, dopo essersi levato in volo, aveva iniziato a volare minacciosamente in tondo sulla testa di Mickey, tanto da costringermi ad avvicinarmi velocemente, battendo le mani e facendo un gran chiasso. Solo a quel punto l'uccello infastidito si era allontanato.
Andando a spulciare tra i miei quadernetti (dove appunto informazioni ed intuizioni), noto che in passato lo avevo definito "l'esploratore". Non c'è altro. Ho scritto solo "l'esploratore", senza indicare da chi o da che cosa mi fosse stata ispirata quella definizione. Forse da nulla.
L'airone, del resto, è un animale che vive in limine (si pensi alla sua predilezione per le zone palustri, per le risaie, dove la terra si congiunge col cielo ed è come se i confini venirssero meno - anche se per un periodo di tempo limitato; per dirla con De Martino, è un po' come se l'airone vivesse in una sorta di mundus dei giorni nostri...), tanto che nell'antico Egitto era identificato con Bennu, l'uccello sacro - con la Fenice. E quale animale può meglio svolgere il ruolo di "camminatore" attraverso le acque morte se non l'airone, che vive per gran parte della sua esistenza immerso nelle acque immobili? E' una Fenice perfetta, che ci conduce attraverso la morte nell'acqua, piuttosto che attraverso il fuoco, lungo lo svolgersi di un cammino imperfetto.

Le "acque morte" della mia zona. Foto di © Cristiano Villa.
Cammino che è imperfetto anche fisicamente, come già si erano accorti gli antichi, a causa dell'andatura apparentemente claudicante dell'airone (e delle garzette, delle nitticore ecc. ecc.).
Carlo Ginzburg, nella sua bellissima Storia notturna, indica queste "imperfezioni" (nel mondo animale e in quello umano) come segni distintivi importanti:
«In una società di vivi, i morti possono essere impersonati soltanto da coloro che sono inseriti imperfettamente nel corpo sociale».
E quale modo migliore, per scovare gli "imperfetti" (coloro che sono destinati ad "avere a che fare coi morti" e, attraverso di essi, se avranno ben lavorato, giungere alla purificazione), se non andare a caccia di segni? Dai marchi di Satana alla cecità dei poeti-veggenti, di Cecolo, di Tiresia; passando per la zoppìa di Edipo, di Vulcano, degli uccelli di palude (appunto). E' il passo di Yu.
Dopotutto, il cammino attraverso le acque morte non è un viaggio facile: è il Cammino dei Folli...