sabato 19 dicembre 2009

Dei guardiani del tempo

I rapaci sono per me i guardiani del tempo, l'ho scritto qualche giorno fa.
Insieme ai felini (grandi e piccoli), ai serpenti e agli squali, sono fra gli animali che maggiormente mi affascinano e ai quali sento di essere legata (spesso in maniera incomprensibile) da un filo rosso.

(Non si tratta di amare un animale... Amo il mio cane, che è fonte inesauribile di gioia, amo i miei gatti... Ma quando parlo di legame indissolubile intendo qualcosa di ancestrale, di emozionante e sconvolgente, che riguarda una particolare specie e non un singolo esemplare. Quell'ineffabile miscuglio di sensazioni possenti e inebrianti che mi coglie quando scorgo il volo di un falco o ammiro l'appostamento di una leonessa, pronta allo scatto...)

I rapaci, dicevo.


La poiana che incontro ogni mattina andando a lavorare: il suo saluto silenzioso è quasi un monito a saper attendere...

Il primo vero "incontro" con questi predatori lo ebbi sette o otto anni fa, quando ancora abitavo in città. Ero in giro con Mickey per il mio quartiere, quando, rientrando, mi accorsi di una bianca presenza appollaiata su uno dei rami più bassi della pianta che cresceva nel piccolo giardino condominiale dei vicini.
Era un barbagianni: bianco e impassibile, uno spettro in una notte di maggio.
Mickey, come me stupito di trovare un simile animale nel nostro rumorosissimo quartiere, ha sollevato lo sguardo per osservarlo meglio (la coda e le orecchie dritte, ma senza abbaiare: come me, il mio cane sembrava pieno di rispetto per questa candida apparizione) e il barbagianni ha ricambiato, seguendoci senza muoversi - finché non siamo scomparsi dalla sua vista.

Conservo ancora oggi intatto il ricordo di questa epifania.
Da allora, ho cominciato a documentarmi in maniera quasi febbrile su gufi e barbagianni, ricercandoli di notte, sulle colline.
Quando mi sono trasferita in paese, ho scoperto con gioia l'esistenza - all'ingresso del centro abitato - di un albero secolare che, all'inizio della primavera, si copre di nitticore, garzette, gufi e barbagianni. Sentirli gridare nella notte, incuranti dei pochi passanti che attraversano la piazza, è un'esperienza che non si può descrivere con semplici parole, in un post.

Le apparizioni dei rapaci, diurni e notturni (ormai purtroppo decimati dall'inquinamento delle nostre campagne), rappresentano un segnale, un signum.
Poiché pochi altri animali concentrano in sé la volontà e i ritmi della Signora dei Crocicchi.
Vita e morte (come dimenticare il falchetto che, due anni fa, venne ad uccidere un passero proprio nel mio cortile? Per quanto triste sia stato per me lavare il sangue del povero animaletto dalle piastrelle davanti all'uscio di casa, lessi quell'improvvisa irruzione nella calura estiva come un manifestarsi folgorante dell'altro), estate e inverno, oscurità e luce, tutto essi indicano con silenzioso riserbo - per chiunque sappia comprendere il linguaggio eterno che va oltre le parole.
In questa stagione (che da sempre vivo con poca serenità, nella smaniosa attesa del ritorno del Sole e della Pienezza), la mia guida è una poiana: rapace diurno, non a caso.
La vedo ogni mattina, recandomi al lavoro; appollaiata sopra un cartello segnaletico, un palo della luce, oppure ritta in mezzo a un campo.
L'ultima apparizione è stata proprio in mezzo alla neve: il suo piumaggio fulvo, in mezzo al biancore accecante della campagna immacolata era un vero e proprio monito - un inno al prossimo risveglio...

martedì 15 dicembre 2009

Della parola e della forma

Leggendo Magia e medicina popolare in Piemonte, di Massimo Centini ~ Appunti, pensieri

«"Zitto!" mi rispose quello "Sei solo un ragazzo e per di più straniero, perciò giustamente non ti rendi conto che sei in Tessaglia e qui da tutte le parti le streghe dilaniano a morsi i volti dei cadaveri; è una pratica fondamentale della loro arte magica." E io, a mia volta: "E dimmi, per piacere, che cos'è questa storia di custodire i cadaveri?" "Prima di tutto" mi rispose "bisogna vegliare con la massima attenzione per tutta la notte, tenendo gli occhi ben aperti, anzi, spalancati e sempre fissi sul cadavere, e non si deve mai distogliere lo sguardo, anzi neanche volgerlo poco poco, perché quelle terrificanti creature sono capaci di cambiar forma e, una volta mutato il loro aspetto in quello di un animale qualunque, di infilarsi dentro di nascosto, al punto che riuscirebbero a ingannare persino l'occhio del Sole e della Giustizia! Infatti prendono le sembianze di uccelli o di cani, di topi e persino di mosche. A quel punto, con le loro terribili cantilene, sprofondano nel sonno i guardiani. [...]"»

(Apuleio, Metamorphoseon libri XI, 21-22)


Lamia, immagine da Google

Della forma e della parola, quindi - come già annotava Apuleio.

Le streghe piemontesi (che con le striges romane hanno legami di parentela più stretti di quanto non si pensi) vengono comunemente definite masche.
Il termine deriva strettamente dal latino larva, "pelle", "cuoio": per estensione del termine, i materiali con cui venivano fabbricate le maschere.
Per questo motivo larva, per i Romani, indicava la maschera dai tratti deformi e spaventosa. E ancora: lo spirito malvagio di un trapassato (spesso con sembianze scheletriche), opposto ai benevoli Lari.

Due sono le caratteristiche primarie della "maschera", che le masche erediteranno: la facoltà metamorfica riguardante l'aspetto e quella riguardante la voce. Mutato il volto, anche la voce cambia: diventa strido o cantilena; borbottìo diabolico o formula magica.

«[...] Talamasca sarebbe una maschera che borbotta o parla in modo strano come uno spirito o un ossesso.»

(P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino 1976, p. 169.)

Come gli spiriti e gli indemoniati (come i poeti e i veggenti!), le streghe sono detentrici di un potere altro, di una vista acuta e particolarissima: il loro linguaggio non può che essere deforme nella perfezione.

«Il corpo è fatto di sillabe.»

(La fattucchiera Lidia)

E nello stesso modo deforme è il loro aspetto:

«[...] quando arriva la festa delle calende di gennaio [...] non permettete che vengano in corteo, davanti a casa vostra, mascherati da cervi, da streghe, da qualunque bestia; rifiutate di dar loro la strenna, biasimateli, correggeteli e, se potete, impedite loro di agire così.»

(Cesario di Arles, Sermones au peuple)

La metamorfosi è unica e sdoppiata...

(Sull'importanza della parola nella maghéia antica.)

lunedì 14 dicembre 2009

Della poiana e dell'aconito

Me ne sono già lamentata sui miei blog "pubblici", quelli che ho scelto di collegare al mio vero nome (e non domandatemi perché non l'abbia fatto anche con questo... Forse desideravo soltanto conservare un ultimo lembo di foresta vergine...): da quando mi hanno spostata d'ufficio sono irritabile, scontenta, nervosa.
Intendiamoci: il lavoro in città e in ufficio non è il massimo, per chi sogna un rapporto costante con la Natura, un rallentamento dei ritmi, un ascolto costante della voce della Magna Mater.
Tuttavia devo ammettere che, nella mia vecchia postazione, la qualità umana del lavoro che svolgevo era davvero soddisfacente: si produceva (come si suole dire oggi) in armonia e amicizia, lavorando con entusiasmo e solidarietà indiscussa insieme ai colleghi.
Oggi, nelle nuove tre stanze (caotiche, frenetiche) che mi sono state assegnate, mi sento in gabbia.
D'accordo, sono riuscita a mettere i paletti necessari: innanzi tutto si tratta di una situazione transitoria (il 31 dicembre scadrà il contratto ma, con tutte le ore di straordinario accumulate durante la Festa del Vino, potrò restare a casa fin dal 21); e poi ho scelto (decrescita felice!) di rimetterci dal punto di vista economico guadagnandoci in benessere e ho preferito un tranquillo "part-time" a un logorante "tempo pieno".

Intanto, la stagione del Rigore incede inesorabile, lenta e incurante.
La Natura dorme. Faccio fatica a coglierne il silenzio, in questi giorni di baccano pre-natalizio. Eppure a tratti trapela - perfino qui, in paese.
Ogni mattina, mentre vado a lavorare, scorgo la poiana a margine del campo. Sempre lo stesso campo, ogni mattina.
I rapaci sono i custodi del tempo, mi dico spesso.
Ogni mattina rallento, la guardo: lei non si sposta. Ricambia la mia attenzione.
So che in primaverà la vedrò di rado. Lontanza e ri-unione.

Come la poiana, anche il mio piccolo aconito sfida l'Oscurità, nella serra.
Cresce testardo, contro ogni previsione.
Ho temuto di non vederlo spuntare: del resto, la semina tardiva era stata solo un esperimento. Metà dei semi li avevo conservati per la prossima primavera.
E invece... Eccolo, minuscolo, beffardo.
Anche le sue piccole foglie sembrano lanciarmi un monito, un richiamo di appartenenza.

Devo proseguire, senza perdermi...



Una poiana in volo, da Google. Ma spero di riuscire a fotografare presto la "mia" poiana!

sabato 28 novembre 2009

Della magia delle parole - Parte II

Se per maghéia intendiamo la facoltà (poietica) di manipolazione e di com-prensione del reale, diventa imperativo stabilire quali debbano essere le caratteristiche della parola che e-mettiamo, e dunque quale sia il nostro ruolo di "aedi".
Il termine "poesia" (non bisogna mai dimenticarlo) deriva dal verbo greco "poièo", che significa "invento", "compongo"; ma anche "produco", "faccio": creo.
In passato i poeti hanno avuto un ruolo ben preciso nella storia e nella società: da contestatori a vati, hanno saputo quale via percorrere e additare ai posteri.
E oggi?
Tenta di dare una risposta Gary Snyder, poeta e ambientalista.
Ho trovato le sue parole sul blog di Renato e mi sono parse illuminanti: se ritornare alla Terra, alla Magna Mater, potrà rappresentare una salvezza per tutti, a maggior ragione lo sarà per il poeta-sciamano, per il mago e per la strega. Dando voce, noi possiamo modificare e creare, erigere cattedrali del pensiero, superando lo sgretolarsi del sensum...

«Una parte del lavoro del poeta oggi è essere testimone. Siamo testimoni di quello che sta succedendo. Il testimone forse può cambiare le cose, forse può fermare le cose, forse può fornire un modello alternativo, oltre a far conoscere al mondo ciò che sta succedendo. Siamo testimoni del comportamento distruttivo della modernità globale, del capitalismo che avanza e della dissacrante alleanza tra tecnologia ed egoismo. […] Poi c’è un altro ruolo più antico, che è quello del guaritore, il ruolo dello sciamano, che implica l’andare oltre l’essere un semplice testimone e cioè diventare una voce in contatto con le altre forme viventi, che parla per la natura, ma anche per i diseredati e al gente povera della terra. Parlare per gli altri che non hanno voce.»


Mariella Loro, L'aedo

giovedì 29 ottobre 2009

Il Guardiano del Bosco chiama

Il Guardiano del Bosco chiama. La sua voce è nella mia testa e fra i rami del castagno. Mi raccomanda prudenza, ma al tempo stesso mi esorta a compiere il mio dovere.
Per Calenda saremo al Bosco della Partecipanza.
Quella notte le nostre case saranno invase dai sussurri.

«La mia casa è piena di ospiti. Ma chi sono veramente costoro?»

Da ragazzine, Mara e io ripetevamo spesso questa frase. La trascrivevamo sul frontespizio dei libri di Poe e di Maupassant, già allora soggiogate dalla potenza del Trapasso e del Ritorno.
A casa lasceremo doni per spettri e defunti e gli animali saranno guardiani e testimoni della danza meravigliosa.
Quanto a noi, cammineremo fra i sentieri nella notte e tutto il Bosco festeggerà con noi l’avvento e la morte.

Per i cani che latreranno al Suo passaggio…
Per la Signora dalle nere sottane…
Per noi, streghe, creature di furore e di terra…



Ecate protettrice delle strade celebro, trivia, amabile,
celeste e terrestre e marina, dal manto color croco,
sepolcrale, baccheggiante, con le anime dei morti,
figlia di Perse, amante della solitudine, superba dei cervi,
notturna, protettrice dei cani, regina invincibile,
annunciata dal ruggito delle belve, senza cintura, d'aspetto imbattibile,
domatrice di tori, signora che custodisce tutto il cosmo.

(Inno orfico ad Ecate)

martedì 27 ottobre 2009

Dell'irrequietudine e del sangue

I gatti sono irrequieti. Alternano istanti di fermento ad altri di calma sospesa. Interpretano, conoscono - in questi giorni tremendi e oscuri che precedono il Soffio.
Il cane attende, mi osserva, percepisce il mio nervosismo.
Perché sono nervosa, sì - e distruttiva. Mi trattengo a stento, non sopporto nulla.
Mi rifugio, bestia scontrosa, nel rapporto coi miei famigli, gli unici che siano in grado di interagire con me senza irritarmi.
Devo prepararmi. Sopra ogni cosa, devo fare silenzio e ascoltare. I segnali sono impercettibili, ma innegabili...



(Devo s a n g u i n a r e se voglio tornare a essere feconda.)

[...] Ma venne l’urlo,
fra le montagne.
Il grido eterno
della donna che partorì sulle rocce
dando alla luce
un piccolo essere

che non piangeva.

Preferisti
la sofferenza indicibile
delle sue viscere,
il volo delle aquile,
il passo delle capre
sui terreni scoscesi.
L’amasti subito
perché era gigantesca,
immobile e non conosceva altro
che il fluire del sangue
fra le sue gambe.

Rimasi io sola,
ad aspettare il terremoto,
la folata,
il singhiozzo,
a contare gli spettri
che si agitano

in eterno

dopo il mezzogiorno.

lunedì 19 ottobre 2009

Del velo che si solleva

Calenda si sta avvicinando. Non me ne accorgo solo guardando il calendario. E’ nei segni, nel respiro della campagna, nella mia inquietudine che cresce giorno dopo giorno.
Da sempre per me Calenda è lo scoperchiarsi della botola, l’aprirsi del baratro. Il Gioco, questa volta, è quello che ingaggio con me stessa: tenera a bada l’onda nera è imperativo, se non voglio impazzire.
Se ci riescirò, sarà merito della Magna Mater. La ascolto, la assecondo. Osservo e attendo, mentre presto orecchio ai sussurri. Sono loro che mi guidano attraverso il bosco, i sentieri, le scelte da compiere.
Come un gatto mi crogiolo al sole – l’ultimo sole prima della Stagione Oscura.
Qualche pomeriggio fa ho interrato i bulbi di crocus, che spunteranno a inizio primavera: preparo la Terra, preparo la nuova fioritura. C’è qualcosa di consolante e di intimamente famigliare, nel nascondere i bulbi, affidandoli al terreno affinché li custodisca e li protegga dal freddo invernale. Un piccolo rito domestico, una risposta alla voce che si fa sempre più pressante.

«Questa è la notte in cui il velo si solleva...»

Ho provveduto infine a ritirare le piante (le orchidee prima fra tutte, che fioriranno, fragili eppure caparbie, nel pieno dell’autunno), per ripararle dal brusco abbassamento di temperatura dell’ultima settimana.
Da un lato, perciò, il rilascio generoso (materno, femminile) di doni alla terra, in vista del futuro risveglio. Dall’altro la conservazione, la protezione, la chiusura nel silenzio che diviene forza e resistenza.
In questi gesti quotidiani, leggo metafore importanti. E attraverso le metafore tento di mettere a posto tutti i frammenti. Un lavorìo incessante, che verrà mandato all’aria non appena il Portale si spalancherà in una folata. Il Caos, a volte, è imperativo e necessario. Si passa attraverso il Caos, per ricostituire l’Ordine.


I boschi intorno a Villamiroglio, ottobre 2009. Foto di Cristiano.

venerdì 25 settembre 2009

Del sonno e dell'assenza

Manco da molto, lo so.
E, quel che è peggio, manco anche a me stessa.

L'estate è stata meravigliosa, come sempre: è la stagione in cui io (creatura di novembre e del paradosso) rinasco e v i v o, nel senso più fulgido della parola.
Ci sono stati il viaggio in Grecia, la visita (fra gli altri luoghi) ad Eleusi e a Delfi (Castalia! Castalia!), alla Corinto di Medea e alla Micene di Cassandra.
E quante altre esperienze... Perché la Grecia non è solo passato - è abbacinante presente. Pienezza del sole, della Terra, perfezione dei ritmi.
Cristiano ha fatto moltissime fotografie, che serviranno a illustrare gli articoli che (lo so già!) scriverò, ammalata di nostalgia, durante il rigore dell'inverno.

Questa è stata l'Estate.
Poi il ritorno al lavoro, la tristezza latente per la Stagione Oscura che si avvicina (lenta... le sue sono dita d'ombra sul terreno) e che metterà alla prova il mio lato peggiore, quello di cui parlo di rado e che pure occupa testardo gran parte del mio Essere. Quello che devo riuscire a controllare e che il freddo alimenta, l'oscurità stuzzica, la neve ingigantisce e rende indomito.

Né aiutano le incombenze della vita quotidiana: in questo periodo sono costretta a lavorare parecchio. Lavoro anche nei fine settimana e, quando torno a casa, non desidero altro che dormire. Il mio corpo lo richiede, ne ha bisogno - perché non accontentarlo.

Mentre dormo, sogno i sentieri dello scorso agosto, percorsi insieme a Mara, in magnifica comunione. Il legame con la Terra era fortissimo, fino al mese passato. Ho praticato per la prima volta la Marcia dell'Attenzione con risultati stupefacenti.
Adesso, per contro, sono distratta, deconcentrata, sradicata. Me ne rendo conto e me dispiaccio ma, come sempre, so che devo assecondare questa prevedibile indolenza.
Dalla settimana prossima smetterò di fare straordinari e, forse, mi rimetterò in sesto. Tornerò a camminare (le colline sono così belle in autunno!), a curare le mie piante, a raccontare storie e a scrivere poesie...
Ma, naturalmente, neppure questa volta si tratta di una promessa...


L'aurora al rifugio "V. Sella". Foto di Cristiano.

mercoledì 15 luglio 2009

Della storia e delle leggende del Principato di Lucedio

A Lucedio ci andavo da bambina: un'amica di famiglia possedeva un laghetto, una piccola polla immersa nel verde rigoglioso del Bosco della Partecipanza, e ogni tanto ci invitava a trascorrere un pomeriggio nella pace assoluta di quei luoghi.

Il toponimo Lucedio potrebbe derivare da locez (come venivano indicati nel Medioevo i terreni boscosi) e, andando ancora più a ritroso, dal latino lucus, parola che indica il bosco in generale, ma anche, più specificatamente, il bosco sacro alla divinità.
Non è un caso, infatti, che a Lucedio sia stata fondata nel XII un'abbazia, ad opera dei monaci cistercensi provenienti dalla cittadina francese di Chalon-sur-Saone, in Borgogna. Il terreno fu loro donato dal marchese Ranieri I del Monferrato e, nel corso del XII, XIII e XIV secolo, l'abbazia dedicata a "Santa Maria di Lucedio" crebbe per importanza sia spirituale sia economica. Molti marchesi della famiglia Aleramica (stirpe cui apparteneva anche il già menzionato Ranieri I) scelsero non a caso di farsi seppellire proprio a Lucedio.
Il dominio dei cistercensi si estendeva sui territori di Montarolo (il cui suggestivo cimitero di campagna sorge proprio accanto al laghetto della mia amica), Darola, Castel Merlino, Leri, Ramezzana ecc. e su alcuni possedimenti dislocati nel vicino Monferrato.
I terreni del monastero erano suddivisi in "grange"; le singole grange venivano quindi affidate a un "fratello converso", che provvedeva a organizzare il lavoro di contadini salariati.
Questo sistema, come già detto, fruttò all'abbazia di Lucedio notevoli proventi e una grande fama.
Nel 1784, però, a causa del disaccordo con la diocesi di Casale Monferrato per la nomina del nuovo abbate, l'abbazia di Lucedio venne secolarizzata e tutti i monaci cistercensi rimasti furono trasferiti a Castelnuovo Scrivia. Alcuni storici locali sostengono che la Chiesa avesse grande interesse ad appropriarsi dell'ingente patrimonio dell'abbazia.


L'abbazia di Lucedio come appare oggi

Comunque siano andate le cose, oggi il Principato di Lucedio è una semplice azienda produttrice di riso.
Della struttura medievale si conservano il particolarissimo campanile a pianta ottagonale, il chiostro, l'aula capitolare (del XIII secolo) e il refettorio. Purtroppo non sono aperti al pubblico, ma visitabili solo su prenotazione. Ed è una vera "bestemmia" che, all'interno di un complesso tanto antico e ricco di storia abbiano deciso di insediare un'azienda agricola!

E' rimasta invece intatta, inalterata nei secoli, l'aura magica di questi luoghi, comprendenti non solo l'abbazia, ma anche il cimitero di Darola, la cappelletta di Santa Maria delle Vigne (in località Montarolo) e tutto il bosco circostante. Da secoli, infatti, su Lucedio si raccontano storie e leggende; e a tutt'oggi la gente del posto sussurra che, di tanto in tanto, accadono fatti misteriosi, difficilmente spiegabili con il solo ausilio della ragione.

Il Sabba del 1684
Tutto ebbe inizio in una notte del lontano 1684, quando, durante un Sabba svoltosi presso il cimitero di Darola (oggi significativamente abbandonato e coperto dai rovi), le streghe decisero di evocare il demonio. Al terzo richiamo Satanasso apparve in tutto il suo fosco splendore e si accorse subito di trovarsi in una zona "interessante": a poca distanza, infatti, sorgeva la florida abbazia di Lucedio. Decise così di impadronirsi della zona, convertendo i monaci al proprio culto.
I religiosi furono sopraffatti e, da quel momento, iniziarono a vessare il volgo, perpetuando abusi e violenze di ogni tipo sui contadini indifesi.


Canidia sbircia dentro al cimitero di Darola

Questa la leggenda.
A ben vedere, è probabile piuttosto che nella zona fossero rimaste forti tracce di culti pagani, come sempre distorte in adorazioni del demonio. Il toponimo, come già ho scritto all'inizio, è una traccia interessante. E la stessa conformazione del territorio (boschivo e paludoso al tempo stesso) potrebbe aver favorito la conservazione di un antico retaggio.
E' altrettanto possibile, inoltre, che la presunta conversione "a Satana" dei monaci di Lucedio altro non fosse che una metafora popolare per sottolineare la loro scarsa equità nella gestione del lavoro e la loro avidità.

Le cripte
Un giorno qualcuno - così prosegue la leggenda - riuscì a imprigionare l'entità malvagia che tormentava Lucedio. Essa fu chiusa nella cripta del monastero, che venne poi murata.
A guardia della forza crudele furono posti i cadaveri (mummificati e assisi su alti seggi) di quegli abati che avevano saputo resistere alla tentazione demoniaca e si erano conservati puri.
Sembra però che, ogni volta che si parla troppo di Lucedio e che rinasca l'interesse per questo luogo ombroso, la presenza torni ad essere inquieta...
Così scrive l'Associazione Teses di Vercelli - che si occupa di speleologia e archeologia:

«Si dice che la presenza deve restare sopita all'interno della cripta e che quando se ne parla troppo o l'interesse verso di essa e la sua chiesa cresce, essa dia degli avvertimenti.
La leggenda prosegue citando i restauri avvenuti nel '62 o nel '68, interrotti proprio quando si stava per accedere alla cripta in quanto un improvviso crollo del soffitto avrebbe ferito mortalmente un operaio.
Ma quello non sarebbe stato l'unico caso di decesso in Lucedio in seguito ad un interessamento eccessivo.
Ancora nel 2001 quando si mobilitò la Fox Channel per le loro riprese, nel corso di un intervista raccontavo questa leggenda.
Loro si incuriosirono e tutti noi ci domandammo se la presenza fosse ancora in grado di colpire, visto l'imminente arrivo di telecamere ed apparecchiature, nonchè di attori e concorrenti.
Proprio in quel periodo un signore a passeggio con il cane, giunto davanti all'abbazia venne colto da improvviso malore e morì regalando un'altra coincidenza a favore della leggenda».

Lo spartito del diavolo
Su Lucedio potrei trascrivere una grandissima quantità di racconti popolari, fatti storici curiosi, leggende e favole dal sapore tenebroso... Dalla colonna che piange alle nebbie - basse e molto dense - che invadono i boschi e i campi nella stagione autunnale; dal sepolcro della "regina di Patmos" al fantasma del monaco (battezzato "Amedeo" da mio padre) che si aggira nei pressi del vecchio monastero...
Il mistero che però più mi affascina è quello del cosiddetto "spartito del diavolo".
Poco distante dal monastero, sorge la chiesetta della Madonna delle Vigne, completamente immersa nella boscaglia e, purtroppo, oggi in pessime condizioni, abbandonata e quasi sommersa dalle sterpaglie.
Al suo interno (vi si può accedere tranquillamente... basta fare attenzione ai calcinacci e ai nidi di calabroni!), sopra la porta d'ingresso, vi è un affresco. Rappresenta un organo a canne e, sotto di esso, è ben visibile uno spartito:

L'affresco e il particolare dello spartito

Secondo la leggenda, la melodia riportata avrebbe lo scopo di tenere imprigionata l'entità demoniaca chiusa nella cripta. Se suonata al contrario, avrebbe invece il potere di liberarla e scatenarla. Sempre per conto di Teses, Paola Briccarello ha tentato un'analisi strutturale delle note riportate sul curioso "spartito murale": le potete leggere qui.
Così, proprio la musica diventa il "mezzo", la "chiave di volta" per liberare la forza magica e poietica (magica, sì!) di questi luoghi...

Ma ora mi sto lasciando trasportare dalle parole, dai ricordi, dalle suggestioni... Questo post si sta facendo davvero troppo lungo: continuerò più tardi o domani!

[Continua...]

lunedì 13 luglio 2009

Campagna contro gli abbandoni - Estate 2009

Sul blog animalista Natividad parte la campagna contro gli abbandoni dell'estate 2009.
Per l'occasione abbiamo preparato dei banner, usando come "testimonial" il nostro fido Mickey. Le foto, come sempre, sono di Cristiano.
Prelevate e diffondete, ci farete un immenso piacere!


venerdì 10 luglio 2009


La Casa della Strega

Nel mio giardino ti ho piantato,
nel mio giardino nascosto, il mio cuore.
Intricati sono divenuti i tuoi rami
e profonde in me le tue radici.

E dall'alba alla notte
Non tace, non si placa il giardino,
perché ci sei tu, tu
con i mille uccelli del tuo canto.

Rachel Bluwstein

mercoledì 8 luglio 2009

Artemisia absinthium L.

I semplici hanno con la strega un rapporto particolare e uterino. Essi "sentono" la strega, ne assecondano e precedono l'istinto.
Non ho mai amato in modo particolare l'assenzio: il suo aroma amaro mi infastidisce e, non di rado, mi fa venire voglia di tossire.
Lo piantai in giardino solo perché mio padre ne aveva raccolto una pianta durante un'escursione - e me la diede.
Morto durante l'inverno e autorigeneratosi alla primavera successiva, quest'anno è cresciuto con prepotenza. Ho dovuto legarlo e ridimensionarlo, per impedirgli di soffocare la delicatissima aquilegia.
Eppure, nonostante il rapporto non troppo stretto con questa pianta, ieri notte - con la Luna delle Erbe, potente e feconda - sono uscita a raccogliere proprio l'assenzio, facendone due mazzi che oggi ho appeso ad essicare. E non posso negare di aver collegato questo desiderio improvviso con tutto quello che sta accadendo dentro e fuori di me in queste settimane...



L'assenzio è una pianta perenne. Possiede un aroma caratteristico e foglie di un bel verde-argento. Le infiorescenze - abbastanza insignificanti - sono di colore giallo chiaro.
Cresce in tutta Europa, escluse le regioni settentrionali, Asia occidentale e Africa settentrionale. In Italia lo si trova facilmente anche fino ai 2000 m. di altitudine.
Le parti utilizzate sono le foglie e le estremità fiorite.
Ottimo come tonico e stimolante per l'appetito (vino di assenzio), antisettico, digestivo e vermifugo. Aiuta altresì in caso di flusso mestruale troppo scarso.
Bisogna evitare di prolungarne l'utilizzo.
Il suo olio essenziale è molto attivo e tossico e l'odore delle sue foglie allontana le mosche.

Celti e arabi utilizzavano l'assenzio come se si trattasse di un vero toccasana e, nel 1558, il medico e botanico tedesco Tabernaemontanus, sosteneva che l'assenzio fosse un utile rimedio contro l'irascibilità.
Il suo sapore amaro (l'etimologia del nome deriva dal greco a-psìnthos e significa appunto "che non reca diletto, spiacevole") ha fatto sì che nelle Sacre Scritture venisse assunto quale simbolo di tutte le umane tribolazioni (Ger 9,14; 23,15 - Apoc 8,11).

In particolare, l'assenzio è celebre per il liquore che da esso veniva distillato, molto in voga fra i poeti decadentisti francesi.
Di colore verde (da cui il nome "Fata Verde", con cui spesso veniva chiamato), consumato con l'aggiunta di acqua ghiacciata o zucchero, il liquore estratto dall'assenzio poteva provocare stordimento e allucinazioni.
Per questo fino a poco tempo fa era stato messo fuori commercio. Oggi è possibile di nuovo trovarlo sugli scaffali dei negozi, ma in una versione decisamente meno "pericolosa" rispetto al liquore che veniva sorseggiato da Baudelaire e dagli altri poeti maledetti.

Coltivazione
Non è affatto difficile da coltivare (anzi, si comporta quasi come un'infestante!), basta ricordare che l'assenzio predilige i luoghi soleggiati e i terreni ben drenati.
Poiché in natura cresce anche in zone brulle e sassose, non necessita di abbondanti e frequenti annaffiature.
D'inverno la pianta perde la sua parte aerea. La sua moltiplicazione può essere effettuata in autunno (mediante divisione dei rizomi) o in primavera, piantando i semi minuscoli nel terreno.

Sul sito Galenotech.org si trovano tutte le indicazioni per produrre il famoso liquore della "fata verde".

lunedì 6 luglio 2009

Della magia: streghe e guaritrici

Nel corso delle ricerche e delle testimonianze raccolte nelle già menzionate puntate di Io la notte volo, Carla Fioravanti si è soffermata sul ruolo delle guaritrici, che fino al secondo dopoguerra erano l'autorità medica indiscussa in villaggi e paesi e che ancora oggi sono attive nelle nostre campagne.
Io stessa, non molto tempo fa, feci visita a un angelico vecchio signore (il "Censìn"), che diceva di aver ricevuto in dono da Padre Pio la capacità di curare acciacchi e nevralgie con la sola imposizione delle mani.
Vero o falso che fosse, in molti correvano da lui quando accusavano mal di schiena o prendevano una brutta storta - e tutti se ne tornavano a casa soddisfatti. Oggi Censìn non c'è più e chissà quante artrosi e sciatalgie non potranno più essere curate dalle sue mani miracolose...

In quest'epoca di progresso tumultuoso, accettiamo ancora che vi sia chi guarisce i malanni del corpo per intercessione divina (rigorosamente cristiana).
Diventiamo più scettici se qualcuno ci fa notare che anche le "medicone" - o addirittura le streghe! - potevano alleviare dolori e sciogliere fatture borbottando preghiere e ripetendo i nomi dei Santi.


Ciò che interessa, nel rapporto fra le "donne della medicina" e i loro pazienti, è la parete sottile che separa queste pratiche ("sciamaniche") dalla magia popolare.
Le guaritrici somministravano erbe, recitavano preghiere. Erano "maestre di parto" (e dunque emblemi di fecondità) e possedevano la capacità meravigliosa di tessere intrecci catartici attraverso parole e nenie recitate a memoria. (Ancora, la magia delle parole!)
Ruscivano a creare un rapporto di fiducia con la persona che si affidava alle loro cure. Un rapporto che era a tutti gli effetti erotico, se per eros intendiamo la "capacità di capire il significato profondo della vita", superando la paura (dei dogmi, della religione...).
La differenza, fra guaritrici e streghe, fra "medicone" e masche, è impercettibile: anche la strega veniva chiamata per riportare equilibrio fra mente e corpo, fra physica e psyche. Qui, fortissima è l'analogia tra malattia e fattura - entrambe intese come sovvertimento dell'equilibrio interiore dell'organismo umano.
Anche la strega recitava formule e preghiere aventi funzione catartica. Anche la strega dispensava consigli bizzarri e somministrava erbe miracolose.
E anche la strega era simbolo prepotente di fecondità: perfino quando, per contro, veniva accusata (anziché invocata) di uccidere bambini e bestiame...

«Buona come un'agnellina era la mia mula - dice crollando il capo Tonio della vigna - e filava dritta per la strada senza scartare mai, ora non soffre più le briglie, è ombrosa, s'impenna, scappa via, e finirà per farmi rompere il collo... finirà. Chi sa mai che cosa abbia visto.
Chi sa mai? Lo so io - dice colei che la sa lunga - lo so io che cosa ha visto: è stata stregata dalla megera che le passò daccanto: forse sarà stato stregato il fieno del prato, perché durante la fienagione è passata la goba che porta sfortuna... [...]
Sapete qual è l'incontro? E' l'abuso del vino e dei liquori, è l'abuso dei piaceri viziosi, è la malattia contratta prima del matrimonio fatto a occhi chiusi, è la malattia ereditaria che si rivela nei bambini, è il vino che si dà loro da bere...»

(Dalla testimonianza del parroco di Corneliano, don Calliano, del maggio 1922. Pubblicata su Masche, di D. Bosca, Priuli&Verlucca editori)

giovedì 2 luglio 2009

"Vanno, vengono..."

Povero impolveratissimo blog. Dopo questa lunga latitanza, somiglia davvero a un antro stregato: buio, polveroso, ingombrato da ragnatele e vecchi oggetti (o vecchie parole: è lo stesso...).
Cercherò di rimediare nelle prossime settimane.
E' già molto che sia riuscita a scrivere questo post.

Ammesso che ci sia ancora qualcuno che capita su queste pagine, voglio rassicurarlo: sto bene. La mia vita "normale" (lavoro-casa-famiglia-animali) procede senza scossoni. Forse è perfino troppo intensa: negli ultimi mesi sono arrivata a fare tre lavori differenti. Al mattino e al pomeriggio in ufficio, dalle 18 in avanti china sulle bozze da correggere, il sabato a dare ripetizioni di italiano in una scuola superiore. Insomma, in questi tempi di crisi... non mi posso certo lamentare.
L'unica pecca (non da poco!) è che ho trascurato parecchio (mio malgrado e con non poca in-sofferenza) il mio lato spirituale, libero, selvatico - chiamatelo come vi pare.
Quello che mi spingeva ad "andare per colline", a passeggiare di notte e a danzare nella Natura.

Adesso, però, mi sono ripromessa di riprendere il controllo.
Non ho intenzione di impazzire per qualche soldo in più a fine mese.
Il Solstizio è arrivato, la Terra chiama.
Mi sento in espansione, prolifica come una zolla.
Ed è a quel richiamo che devo rispondere, se non voglio smarrirmi.

Ci riuscirò. A partire dalla prossima settimana avrò per me tutto il tempo del mondo.
Voglio camminare e scrivere. Scrivere e camminare. Avere i piedi sporchi di terra e le tasche piene di parole.
E poi ci saranno sabbia e salsedine, il sole accecante che stordisce i sensi... Ma di questo parlerò più avanti, non ora.
Come sempre devo andare per gradi, senza affanno.
Fare di tutto per non sentirmi addosso il fiato soffocante del tempo che scorre - con o senza di me. Panta rei, panta rei...


Camogli nel 2007, foto di © Cristiano

«Sapere che non si scrive per l'altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno mai amare da chi io amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove tu non sei: è l'inizio della scrittura.»

(Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)

mercoledì 3 giugno 2009

La papessa Giovanna

Come sa bene chi mi legge da qualche tempo, amo utilizzare la parola “strega” con una duplice accezione: da un lato quella esatta di “donna di magia”, “fattucchiera” e “maliarda”; dall’altro quella riferita più specificatamente al potere eversivo della foemina.
Un potere capace di sovvertire l’ordine costituito con la virulenza di un contagio – e per questo osteggiato con forza nel corso dei secoli.

Ciò considerato, non dovrete stupirvi di vedere inserito il presente ritratto (e altri che verranno) sotto la categoria “
striges”.
Sono “streghe”, infatti, tutte quelle donne passate alla storia per la loro forza, caparbietà e genialità, vituperate dalla società (a predominanza maschile) perché temute e detestate proprio a causa delle qualità di cui erano portatrici.



La papessa Giovanna e il suo bambino, 1600

La vicenda
Pur essendo ormai assodato che la papessa Giovanna appartiene al mondo suggestivo ed evanescente della leggenda, la figura di questa donna salita al soglio pontificio celando il segreto della propria femminilità rimane comunque un fulgido esempio della misoginia violenta della Chiesa e del cristianesimo.
Secondo le fonti, avrebbe regnato dall’853 all’855, tra Leone IV e Benedetto III.
La sua vicenda viene tramandata anche dal Boccaccio, nel suo De mulieribus claris: Giovanna Angelica era una fanciulla dall’intelligenza viva, desiderosa di riscattarsi dalla propria condizione ricevendo un’istruzione – privilegio negato alle appartenenti del suo sesso. Decise così di indossare abiti maschili e partì al seguito di un monaco, verso l’Oriente. Quando il suo maestro morì, ne vestì i panni ed entrò in monastero, distinguendosi presto per sapienza, ingegno e cultura. La sua ascesa fu rapida e, nel corso del conclave successivo alla morte di Leone IV, fu scelta come suo successore.
Solo il suo segretario – un giovane monaco – a causa della stretta convivenza col pontefice, scoprì il segreto di Giovanna; ma lo tenne per sé, diventando il suo amante.
L’inganno venne tuttavia svelato quando, durante una processione, un incidente col cavallo costrinse a partorire prematuramente il figlio di cui era incinta.

«[…] immediatamente la giustizia romana lo fece legare per i piedi e attaccare alla coda di un cavallo; fu trascinato, lapidato dal popolo per mezza lega e seppellito nel luogo in cui morì. Qui venne posta un'iscrizione: Pietro, Padre dei Padri, rendi Pubblico il Parto della Papessa»

ci racconta il domenicano Jean de Mailly nella sua Chronica universalis (1250).

Le fonti
• Prima versione: tramandata dal domenicano Jean de Mailly nel 1250 e ripresa da un altro domenicano, Etienne de Bourbon nel 1261. In questa versione non viene menzionato il nome della papessa e il suo pontificato viene collocato nel 1100.

• Seconda versione: di Martin di Troppau (o Martinus Polonus, morto nel 1278). Qui ci vengono tramandati il suo nome e la sua spiccata attitudine al sapere.

Altre cronache successive ci dicono che il nome della papessa fu Agnese, o Gilberta.

La leggenda trae origine dalla critica antipapale sfociata in seguito al conflitto col Papato aperto dall'imperatore Federico II. Significativo che si sia scelto di attribuire un volto femminile (evidente qui la misoginia dell'epoca) a un papa sessualmente attivo e, a quanto pare, alquanto promiscuo. Una donna che è riuscita a raggiungere il vertice della piramide ecclesiastica (con l'inganno; ma anche per i suoi indiscussi meriti) deve essere immediatamente punita e diviene allegoria di presunzione, cupidigia e inganno.

Suggestioni
Il romanzo di Donna Woolfolk Cross Pope Joan, edito in Italia da Piemme.
Il film tratto dal romanzo succitato, girato dal regista Sonke Wortmann.
Il film Pope Joan del 1972, diretto da Michael Anderson e interpretato da Liv Ullman.


La locandina del film Pope Joan, di Sonke Wortmann.

sabato 30 maggio 2009

Dei "niclot"


Immagine di © Alan Lee, dal volume illustrato Fate

Torno a scrivere su queste pagine inaugurando una nuova categoria (dedicata al Piccolo Popolo) e riportando questo interessante articoletto, trovato qualche settimana fa sul giornale locale...

«La lettura dell'opera Proverbi monferrini (1901) riserva spesso e volentieri delle sorprese. A pagina 166 si legge infatti: "Essii dal moschi an t'i fidei, dal pan mal mastià, di niclot. Esservi delle mosche nei vermicelli, del pane mal masticato, dei niclot".
Il commento esplicativo dell'autore è: "Vuol dire esservi contrasti, attriti". Le prime due espressioni si usano ancora in Monferrato [...]. Ma il termine niclot è sconosciuto a tutti quelli che ho interpellato [...]. Ora dobbiamo notare che il Della Sala Spada non traduce il termine: esso doveva essere evidentemente ancora conosciutissimo ancora all'inizio del Novecento, tanto da rendere superflua ogni traduzione. Possibile che il termine sia sparito dall'uso senza lasciare traccia? Una fortunata combinazione mi ha permesso di trovare il significato della parola. Stavo infatti leggendo le opere di Primo Levi e ne Il sistema periodico (1975), opera nella quale l'autore sfrutta la sua esperienza di chimico, leggo un passo che mi fa sobbalzare: "Tutte le miniere sono magiche, da sempre. Le viscere della terra brulicano di gnomi, coboldi (cobalto!), niccoli (nichel!), che possono essere generosi e farti trovare il tesoro sotto la punta del piccone, o ingannarti, abbagliarti, facendo rilucere come l'oro la modesta pirite, o travestendo la zinco con i panni dello stagno: e infatti sono molti i minerali i cui nomi contengono radici che significano inganno, frode, abbagliamento". Il passo è tratto dal capitolo sul nichel, minerale di poco valore, con cui si coniò il cosiddetto nichelino, una moneta da 20 centesimi coniata nel 1894 e 1895 sotto Umberto I: il nichelino indicava per estensione lo spicciolo. In un altro luogo lo scrittore dice che "la pietra non raccoglie energia in sé, è spenta sin dai primordi, pura passività ostile; una fortezza massiccia che dovevo smantellare bastione dopo bastione per mettere le mani sul folletto nascosto, sul capriccioso nichel-Nicola che salta ora qui ora là, elusivo e maligno, colle lunghe orecchie tese, sempre attento a sfuggire al piccone indagatore, per lasciarti con un palmo di naso". Per capire questa allusione al nichel-Nicolao bisogna ricordare che il termine nickel in svedese è il diminutivo di Nicolao e che il nome del minerale si deve al chimico svedese Axel Frederick Cronstedt, che lo scoprì nel 1751. La parola nichel proviene dal termine tedesco Kupfernickel: il nome gli fu dato dai minatori che attribuivano ad un genio maligno le colpe del ritrovamento di questo metallo, che allora non aveva alcun valore, al posto del rame, elemento più prezioso e utile. Kupfer significa infatti "rame", mentre Nickel si riferisce a Nicolaus, un genio maligno, un folletto. I niclot, come ci testimonia il Della Sala Spada, erano ancora conosciuti in Monferrato agli inizi del Novecento ed erano creduti responsabili di creare disaccordo. Ma senza il provvidenziale accenno di Primo Levi il termine sarebbe finito nel novero delle parole morte e dimenticate.»

Articolo di Olimpio Musso, pubblicato su "Il Monferrato" nel mese di maggio 2009

venerdì 8 maggio 2009

Trafelata

Chiedo scusa a tutti, sono stata imperdonabile: non mi sono fatta sentire con nessuno neppure per Calendimaggio. Non un messaggio, non una telefonata. Neppure i soliti "auguri" qui sul blog.
Il fatto è che in questo periodo sto lavorando sette giorni su sette e ho davvero poco, pochissimo tempo per Internet o per qualsiasi cosa che non siano le consuete responsabilità quotidiane.
E pensare che avrei così tante parole da scrivere e foto da pubblicare! Specie del mio hortus conclusus, che si è risvegliato meravigliosamente, dopo i rigori dell'inverno e mi dà molta soddisfazione.
Rimedierò presto, lo prometto.
Nel frattempo, Felice Crescita a tutti!

sabato 25 aprile 2009

Macabra scoperta

La notizia è del 21 aprile scorso ed è stata riportata dal quotidiano "The Herald of Plymouth", oltre che dalla testata italiana "La Repubblica".
A Ugborough, villaggio nel Davon, in Inghilterra, è stato ritrovato, durante i lavori di ristrutturazione di un cottage, un gatto mummificato.
La povera bestiola fu murata nella parete dell'attuale bagno (viva? Spero proprio di no...) circa quattrocento anni fa. Secondo la leggenda locale - che finora non era mai stata presa in considerazione come veritiera - si trattò di uno stratagemma per tenere lontane le streghe dalla casa.
Usanza raccapricciante e crudele, segno tangibile della superstizione popolare contro le streghe e contro gli animali tradizionalmente considerati loro "famigli", paragonabile a quella - molto diffusa nel nord Europa - di inchiodare alle porte civette e barbagianni, quale macabro monito per le fattucchiere.
Il fatto più sconvolgente è che il proprietario del cottage, Richard Parson, pare intenzionato, nonostante la rimostranze della moglie, a ricollocare la piccola mummia nell'intercapedine del muro. Decisione che si commenta da sé e che la dice lunga sull'ignoranza e sui pregiudizi ancora largamente diffusi nella nostra razionalissima e "illuminata" civiltà occidentale.

(Le foto del povero gatto mummificato ve le risparmio: campeggiano sui giornali che ho citato, ma personalmente le trovo di cattivo gusto. Preferisco concludere questo post con l'immagine di un bel gattone... vivo!)


Foto tratta da © Gattoamico

mercoledì 22 aprile 2009

Dell'ostinazione alla Vita

Earth Day 2009

Centra
Per la nostra pulsante, grandiosa, meravigliosa
Terra.
Sempre - e nonostante tutto - viva.

lunedì 20 aprile 2009

Dell'amore per la Terra


Se amate il guadagno facile,
l'aumento annuale di stipendio,
le ferie pagate.
Se desiderate sempre più cose prefabbricate,
se avete paura di conoscere i vostri vicini di casa,
se avete paura di morire
allora nemmeno il vostro futuro
sarà più un mistero per il potere,
la vostra mente sarà perforata in una scheda
e messa via in un cassettino.
Quando vi vorranno far comprare qualcosa
vi chiameranno,
quando vi vorranno far morire per il profitto
ve lo faranno sapere.

Ma tu, amica, ogni giorno,
fai qualcosa che non possa entrare nei loro calcoli.
Ama la Vita. Ama la Terra.
Ama qualcuno che non se lo merita.
Conta su quello che sei e riduci i tuoi bisogni.
Fai qualche piccolo lavoro gratuitamente.
Non ti fidare del governo, di nessun governo,
e abbraccia gli esseri umani,
nel tuo rapporto con ciascuno di loro
riponi la tua speranza politica.
Approva nella natura quello che non capisci
e loda questa ignoranza,
perché ciò che l'uomo non ha razionalizzato
non ha distrutto.
Fai le domande che non hanno risposta.
Investi nel millennio,
Pianta sequoie.
Sostieni che il tuo raccolto principale
è la foresta che non hai piantato
e che non vivrai per sfruttare.
Afferma che le foglie quando si decompongono
Diventano fertilità:
Chiama questo "profitto".
Una profezia così si avvera sempre.
Poni la tua fiducia
nei cinque centimetri di humus
che si formeranno sotto gli alberi
ogni mille anni.
Metti l'orecchio vicino e ascolta
I bisbigli delle canzoni a venire.
Sii pieno di gioia,
nonostante tutto,
e sorridi,
il sorriso è incalcolabile.
Finché la donna non si svilisce nella corsa al potere,
ascolta la donna più dell'uomo.
Domandati:
questo potrà dar gioia alla donna
che è contenta di aspettare un bambino?
Quest'altro disturberà il sonno della donna
vicina a partorire?
Vai col tuo amore nei campi.
Stendetevi tranquilli all'ombra.
Posa il capo sul suo grembo
e vota fedeltà alle cose più vicine al tuo cuore.

Appena vedi che i generali e i politicanti
riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero,
abbandonalo.
Lascialo come un segnale per indicare
la falsa traccia,
la via che non hai preso.
Sii come la volpe che lascia molte più tracce del necessario,
alcune nella direzione sbagliata.
Pratica la meditazione.

(Wendell Berry, poeta e farmer "bio" americano. Riportato su Bionieri da Renato, che ringrazio di tutto cuore: ogni parola trasmessa, ogni sogno ribadito - tenacemente - contribuiscono a mantenerci Vivi...)

martedì 14 aprile 2009

Della magia: il codice magico


Dance of the Witches di © Peter Lindahl

Già in passato avevo suggerito che la magia potesse avere legami più o meno stretti con la parola "poetica" (= dal greco poièo, "fare, costruire, inventare, comporre"), nel tentativo - tutt'ora in fieri - di ripercorrere, attraverso il tempo e lo spazio, le radici della fìsica.

Le ricerche di Carla Fioravanti (che ha intervistato numerose persone sul tema della magia, riassumendo poi tutto il materiale nelle splendide puntate del 2006 de Il Terzo Anello, trasmissione radiofonica di RadioTre) mi hanno in qualche modo dato conferma che la strada della funzione "poietica" della magia è quella giusta.

Infatti, che altro sarebbe la magia, se non un codice - ovvero un insieme di segni atto a interpretare (e dunque a conoscere) la realtà?
Esposto in questi termini, potrà sembrare un concetto piuttosto arido, che di certo piacerà poco a quei "romantici" affezionati a una visione ingenua e semplicistica della magia.
Eppure, a ben rifletterci, non esiste nulla di più profondo e "intestino" della volontà di un nucleo sociale di decodificare e conoscere il microcosmo che lo circonda e della conseguente creazione di un codice atto a svolgere tale funzione.
Alla base della nascita del "codice della magia" ci sono perciò il terrore ancestrale nei confronti della malattia e della morte; la paura di smarrirsi all'interno della propria comunità, vedendo svanire la stima e il rispetto dei propri simili; il timore dell'invidia, che può abbattersi su ciascuno di noi con la furia di un demone vendicatore; e, non da ultimo, l'amore per la terra foriera di vita - che in un attimo può essere resa sterile da una potente fattura... Sullo sfondo di tutto questo, la tensione umana mai sopita verso il divino - quella mano sempre tesa a sollevare il velo per scorgere l'inconoscibile. «Il mago è, in piccolo, tutto ciò che Dio rappresenta» afferma senza esitazioni una delle donne intervistate da Carla Fioravanti. Ancora, più avanti:

«La magia è riuscire a passare da un livello di osservazione e di percezione della realtà esteriore, apparente, sino a giungere alla comprensione - attraverso una serenità e una tranquillità interiori - di ciò che si muove sotto l'apparenza».

In questo il mago è simile al "dio" ed è simile all'artista (al poeta!), che spesso e volentieri viene definito "uomo d'ordine": al di là del guizzo creativo, tanto il mago quanto l'artista devono seguire un criterio, che li porterà all'aequilibrium necessario all'atto poietico.

sabato 4 aprile 2009

Della fascinazione del sangue - parte IV: il sangue purificatore, la nekyia

Nel corso delle mie riflessioni divaganti sul sangue, sui suoi significati simbolici e utilizzi, mi sono resa conto quanto sia complesso seguire un’unica linea di trattazione: questo perché l’argomento presenta numerose suggestioni, non necessariamente concordanti le une alle altre.
Il sangue è presente infatti nella letteratura e nella religione di moltissime culture e in ciascun nucleo sociale può essere visto e rappresentato da più punti di vista.
Io stessa ho parlato del sangue come elemento purificatore e del sangue quale veicolo della morte sterminatrice (il sangue mestruale).
In generale è importante rilevare che il sangue possiede la duplice valenza tipica di molti symbola riconducibili, in un modo o nell’altro, ai culti matriarcali: se la perdita del fluido vitale provoca la morte, al tempo stesso chi lo assume (attraverso ingestione o tramite tintura dei capelli o di altre parti del corpo) può incamerare forza ed energia o addirittura essere purificato, entrando così in contatto con la divinità.
E’ quanto accade alle maghe tessale, che bevendo il sangue sacrificale ricevevano il potere di evocare i morti. Ed è quanto accade in Omero e Virgilio, quando viene riferito l’episodio della nekyia:

Addotto in su l'arena il buon naviglio,
E il monto e la pecora sbarcati,
Alla corrente dell'Oceano in riva
Camminavam; finché venimmo ai lochi
Che la dea c'insegnò. Quivi per mano
Eurìloco teneano e Perimede
Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,
Scavai la fossa cubitale, e mele
Con vino, indi vin puro e lucid'onda
Versàivi, a onor de' trapassati, intorno
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste
Pregai, promisi lor che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell'armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.
Fatte ai mani le preci, ambo afferrai
Le vittime, e sgozzàile in su la fossa,
Che tutto riceveane il sangue oscuro.
Ed ecco sorger della gente morta
Dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi
Le pallid'ombre: giovanette spose,
Garzoni ignari delle nozze, vecchi
Da nemica fortuna assai versati,
E verginelle tenere, che impressi
Portano i cuori di recente lutto;
E molti dalle acute aste guerrieri
Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia
Sul petto ancor l'insanguinato usbergo.
Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo
Aggiravan la fossa, e con tai grida,
Ch'io ne gelai per subitana tema.

(Omero, Odissea, libro XI, vv. 23-57)

Passo di notevole forza evocativa, tratteggia agli occhi del lettore un’immagine fosca e potente: non appena Odisseo sgozza le sue vittime, versando il loro sangue nella fossa scavata nel terreno, ecco che subito intorno ad essa si affollano i morti. Morti che non sono ombre silenziose, come potremmo immaginare: sono ombre di ogni tipo (giovinetti, fanciulle, guerrieri in armi…) che gridano, quasi a riaffermare la propria esistenza e il proprio attaccamento alla vita.
Il sangue è il mezzo per sollevare il velo che sapara il mondo dei vivi da quello dei morti - offerta sacrificale per le divinità infere e, al tempo stesso, veicolo di purificazione per i vivi che debbono compiere il grande passo.

V'era una profonda grotta, immane di vasta apertura,
rocciosa, difesa da un nero lago e dalle tenebre dei boschi,

sulla quale nessun volatile poteva impunemente dirigere

il corso con l'ali; tali esalazioni si levavano
effondendosi dalle oscure fauci alla volta del cielo.
[...]
Qui dapprima la sacerdotessa collocò quattro giovechi

dalle nere terga e versò vino sulla loro fronte,
e strappando dalla sommità del capo setole in mezzo alle corna,

le pose sui fuochi sacri, prima offerta votiva,

invocando con forza Ecate, potente nel cielo e nell'Erebo.

Altri sottopongono coltelli e raccolgono nelle coppe
il tiepido sangue. [...]
Ed ecco, alla soglia dei primi raggi del sole,

la terra mugghiò sotto i piedi, i gioghi delle selve

cominciarono a tremare, e sembrò che cagne ululassero
nell'ombra all'arrivo della dea...


(Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 236-257)


Ecate con le fiaccole: immagine presa da Internet

L'accostamento del sangue sacrificale versato all'immagine di Ecate, dea del "passaggio" e del limite che viene valicato è in Virgilio quanto mai significativo, poiché ribadisce il triplice legame tra il sangue (ingrediente primario della nekyia, nei riti di purificazione e nei filtri magici, come specificherò più avanti), le divinità ctonie e la possibilità di passare dalla Vita alla Morte - possibilità che lo stesso mito del vampirismo ribadisce, pur ribaltandola.

martedì 31 marzo 2009

Verbena officinalis L.

Nome: Verbena officinalis L.
Famiglia: Verbenacee
Diffusione: Europa, soprattutto nei paesi mediterranei
Descrizione: pianta perenne, con foglie obovate (inferiori) e lanceolate (superiori), che fiorisce da luglio a settembre. I fiori sono piccoli, di colore lilla-azzurro.


Immagine tratta da Internet

La verbena è una pianta perenne (se tenuta riparata e protetta, può superare l'inverno) diffusa in tutta Europa ed è comunemente soprannominata "erba sacra". Denominazione quanto mai appropriata per questo fiorellino poco appariscente, ritenuto "sacro" presso numerose culture. Citata dai Veda e raccolta dai Celti (che la utilizzavano per purificare i loro altari), la verbena era tenuta in grande considerazione anche dai Romani e dai Greci, che la annoveravano fra le piante sacre a Venere/Afrodite.

(Va rilevato a questo proposito che gli scrittori latini utilizzano il termine "verbena" - non di rado al plurale - per indicare genericamente diversi tipi di piante: l'alloro, il mirto, l'olivo e il rosmarino. Nonostante la verbena non venga mai indicata con precisione, è interessante notare come essa venga accomunata ad alcune fra le piante sacre più strettamente legate ai culti arcaici e ctoni.)

A Roma, la confraternita dei Feziali (che aveva lo scopo di custodire tutte quelle norme sacre attraverso le quali era possibile ricevere protezione nel corso dei rapporti diplomatici con i popoli stranieri) individuava al suo interno due figure di spicco, con il compito di svolgere missioni diplomatiche. Una era costituita dal pater patratus, che agiva in nome del popolo romano; l'altra era rappresentata dal verbenarius, che portava sempre con sé una zolla di "erba sacra" (la verbena, appunto) raccolta sul Campidoglio. L'erba sacra garantiva l'incolumità di entrambi i feziali e dava forza e vigore al pater patratus.

Oltre all'uso sacrale, la verbena era considerata nell’antichità un utile rimedio per molti mali: l'epilessia, la febbre, la scrofola, la lebbra, le malattie della pelle…
In Provenza era chiamata “erba de la merbelo” o anche “erba delle streghe”, forse proprio perché un tempo legata al culto di Afrodite: in effetti la ritroviamo, in epoca cristiana, quale ingrediente importante in molti "filtri magici" aventi lo scopo di far nascere l’amore o di aumentare il desiderio sessuale.

Oggi sappiamo che è ottima contro la febbre (in infuso: 20 g di pianta in un litro d'acqua), le nevralgie, i reumatismi, la sciatica e la ritenzione idrica (cataplasma: foglie e fiori freschi di verbena cotti in aceto), grazie alle sue proprietà antispasmodiche, astringenti e tonificanti.

N.B.: le varietà di verbena che trovate in commercio presso serre e negozi di fiori sono sicuramente belle e appariscenti, ma non possiedono le stesse proprietà della Verbena officinalis. Sono comunque l'ideale per ornare cortili, giardini e balconi.
La verbena, per crescere bene, ha bisogno di molto sole e di annaffiature non troppo frequenti. D'inverno sopporta le basse temperature, tornando a germogliare in primavera. Se, però, la brutta stagione si prospetta particolarmente rigida, sarà meglio ritirare le pianticelle - o ripararle in qualche maniera, con paglia e teli.

sabato 28 marzo 2009

Helleborus

Oggi piove. Il cielo è grigio e un venticello freddo sferza la campagna. E' la prima parentesi di brutto tempo dopo lunghe settimane di sole.
Mentre tornavo a casa in macchina da Crescentino, riflettevo sul fatto che della primavera amo perfino la pioggia - che fa risaltare il verde forte dell'erba appena nata e riempie l'aria del profumo inebriante della terra umida.
La pioggia in marzo mi ricorda la vecchia casa di Camino, i primi settimana che vi trascorrevamo dopo l'inverno...

Penso spesso alle colline, in questi giorni. Sarà perché ancora non sono riuscita a concedermi una camminata rigenerante, fra i "miei" sentieri polverosi.
Ci pensavo anche giovedì pomeriggio, mentre facevo giardinaggio.
Ho cominciato a svasare i nuovi acquisti (menta, tre pianticelle di alisso, una dipladenia...), ma non ho terminato.
Dovrò rinvasare anche l'elleboro, una delle piante a cui sono più affezionata - fra la mia raccolta dei "semplici" - ma che ho sistemato in un vaso decisamente troppo piccolo! (In verità non andrebbe neppure in vaso; ma non ho altro posto - né mi va di lasciare il mio elleboro in mano a sconosciuti, quando ci trasferiremo in una casa tutta nostra.)


Foto © Ovada.it

Nel nostro giardino, l'elleboro è una vecchia conoscenza: tempo fa, infatti, mio padre ne aveva raccolto in campagna una pianticella di una varietà molto "rustica", il foetidus; purtroppo ci è morta pochi mesi fa...


Così abbiamo cercato di sostituirla con una varietà più "addomesticata" (l'abchasicus), in attesa di andare alla ricerca di quello "boschivo" nel corso delle prossime escursioni.

L'elleboro è una robusta pianta perenne, che non teme il freddo, appartenente alla famiglia delle ranuncolacee - come il mio amatissimo aconito.
Il suo nome deriva dal greco: élo (futuro di aireo) = "togliere via, uccidere" + boròs = "che consuma". Il riferimento alla potenza venefica di questa pianta è evidente.
Nell'antichità classica veniva utilizzata per curare la follia (la mitologia greca racconta che fu usata con ottimi risultati su Ercole, reso pazzo dalla persecuzione di Hera) e le donne particolarmente "esuberanti" (ninfomania): interessante notare il breve passaggio dall'uso terapeutico su femmine esagitate e la successiva definizione di questa pianta quale "pianta delle streghe", menzionata in numerosi saggi e trattati sull'argomento.
Sempre allo scopo di tenere a freno l'esuberanza sessuale delle donne, l'elleboro veniva mescolato nelle ricette magiche con vulvaria, camomilla, lattuga velenosa (tridax agria, di cui parla anche Ildegarda di Bingen), canfora e valeriana.
La raccolta dell'elleboro andava effettuata nelle notti di plenilunio.
Insieme al temibile giusquiamo (l'"erba di Circe"), all'aconito napello e alla belladonna, era utilizzato nei filtri che avevano lo scopo di tramutare gli uomini in bestie: da notare che tutte e quattro le piante menzionate hanno un forte effetto allucinatorio, se non mortale.
(Fonte: E. Malizia, Ricettario delle streghe, Edizioni Studio Tesi)

L'elleboro, come ho già accennato, non necessita di grandi cure. La sua moltiplicazione può avvenire tramite semina o divisione dei rizomi (a inizio primavera).
Le parti più pericolose (in quanto contenenti una maggiore concentrazione di veleno) sono le radici e il rizoma, che andranno pertanto maneggiate con estrema cautela.

Nome: Helleborus
Famiglia: Ranuncolacee
Diffusione: Europa, zona caucasica e Asia Minore
Descrizione: pianta erbacea perenne. I fiori possono essere di diverse tonalità di colore, a seconda della varietà di elleboro.

sabato 21 marzo 2009

Ricomincia la danza...


Foto di © Cristiano

per quello che bruciando ti rischiara,
cosmico guscio d'azzurro sonoro,
onde vibrate da un cimbalo d'oro,
ultimo lancio di amorosa gara,

la mano che nell'ombra a te si tende
sul tiepido crocicchio si è fermata
dove i coralli velano l'entrata
e un fiume di lucciole ti accende,

sì, portolano, fuoco di smeraldo,
sirte e lanterna per la stessa audacia
quando la bocca navigante bacia
l'oscura pozza del tuo dorso caldo,

cannibalismo dolce che divora
la preda che l'inabissa a sé avvinto,
oh di se stesso esatto labirinto
di voluttuoso panico dimora

acqua che a chi ti esplora sete toglie
mentre il lume che tutta ti conosce
la sua gazzella accosta alle tue cosce
ed il tremante fiore infine coglie

Julio Cortazàr, Viaggio infinito

(Osservatela.
E' dentro e fuori noi tutte,
Eurinome Perfetta,
che solleva le palpebre pesanti, incrostate di ghiaccio
e allunga le membra imponenti, intorpidite dal freddo.

Sentitela,

come se iniziasse a battere timidamente il tempo
proprio sulla vostra schiena:

tallone, punta, un colpo di bacino ben assestato,
da far tremare il mondo e trasalire la Luna.

La Gigantessa si risveglia, lenta e grandiosa,
e inizia a essere caldo il Suo corpo - e scura la Sua pelle...)

Finalmente, finalmente!
Sono così felice per questo sole e per questo cielo azzurro che ballerei lungo la via...

Ho spalancato tutte le finestre, lascio entrare l'aria frizzante di marzo.
Le mie piante stanno riprendendo forza e vitalità, dopo la malinconia dell'ultimo cupo inverno - e anch'io sto nuovamente germogliando!

Felice Equinozio a tutti!

martedì 17 marzo 2009

Fa' la cosa giusta - Edizione 2009

Anche quest'anno Fa' la cosa giusta è stata una festa di colori, suoni e idee, realizzata da (e per!) tutti coloro che ancora credono nel "migliore dei mondi possibili".
E' stato bello condividere l'esperienza con gli amici di sempre...




... ed è stato addirittura "magico" avvertire epidermicamente la solidarietà e la com-prensione tra pubblico e produttori, fra persone che hanno già intrapreso un cammino impegnativo e lodevole e coloro che (come noi, col nostro piccolo G.A.S.!) stanno muovendo ancora i primi passi...

In particolare sono stata f e l i c e di conoscere le ragazze di Telemaia, bellissime e solari come gli abiti che confezionano. Abbiamo chiacchierato a lungo sulla filosofia che sta alla base del loro lavoro di tintura del cotone - vero e proprio simbolo della rinascita femminile. Meraviglioso! E questa volta finalmente ce l'ho fatta, a tornare a casa col mio abito "Sia Soa"!

Senza contare, poi, la soddisfazione provata come gruppo d'acquisto: abbiamo contattato autonomamente i primi produttori biologici e alcuni di loro sono stati veramente squisiti, arrivando a fornirci già i listini.

Insomma, una vera e propria boccata d'aria buona, ossigeno per i miei polmoni - prima di ricominciare a lottare, nella vita di tutti i giorni, contro gli sprechi, l'egoismo, la faciloneria, l'ignoranza e quant'altro di gretto appartiene alla razza umana...

sabato 14 marzo 2009

Della Sorellanza e dei nodi che si sciolgono

In questo periodo sto sciogliendo (o si erano sciolti già da tempo, quando io ero troppo cieca e sciocca per ammetterlo?) nodi che non avevano più ragione di essere.
Parlo di persone, di donne, con le quali avevo creduto di poter compiere un Cammino e che invece hanno preso differenti sentieri.
Non per colpa mia, né per colpa loro - s'intende.
Eppure - per quanto creda nella Sorellanza e per quanto sia disposta a dare anima e corpo per coloro che amo - sono sempre più convinta che sia necessario tagliare i rami secchi quando non sono più in grado di dare frutti.

(L'unica che rimane solida al mio fianco, burrasca dopo burrasca, è sempre lei, M.
L'unica Sorella che io possa scrivere con la "S" maiuscola.
Quante volte abbiamo litigato?
Quante volte non ci siamo com-prese e abbiamo lottato l'una contro l'altra -

per poi finire sempre a camminare insieme, senza rancore né frasi lasciate in sospeso?

E' successo un'infinità di volte.
E siamo ancora qui.
E il nostro essere "qui" (così come siamo, con semplicità e passione) è la testimonianza più forte della Signora dentro di noi.

«Quando si condividono così tante cose con una persona, è come se tra te e quella persona si stabilisse un incantesimo. E' un filo rosso che non può essere reciso, nel Bene come nel Male...»)

E parlo anche di progetti, di sogni che erano troppo ambiziosi e non si sono concretizzati.
In alcuni casi credo anche di aver peccato di narcisismo - e di avere avuto poca pazienza.
Adesso, però, non ha importanza.
Il repulisti che sto portando a termine è inevitabile: non posso farcela a stare dietro a tutto e a tutti e devo scegliere di dedicarmi a ciò che rappresenta l'hic et nunc della mia vita: i miei tre lavori (!), che saranno anche una scocciatura, ma sono ciò che mi procura la pagnotta a fine mese; i progetti fecondi, come il Gruppo d'Acquisto; la mia famiglia (allargatissima, composta da Cristiano e dai miei animali; dai miei genitori e dagli amici; senza dimenticare le meravigliose persone che mi stanno aiutando con il G.A.S...), che merita tutto il tempo che posso dedicarle; e, last but not least, la Scrittura, che mi aspetta da sempre con una pazienza degna di una divinità ancestrale...

Mi rendo conto di essere molto determinata, in questa fase della mia vita - forse qualcuno scorgerà un'insolita durezza di fondo, nel mio dare colpi decisi di cesoia; ma io mi sento a posto con me stessa, soddisfatta e "piena" come la Signora al suo apice...

E' finita la stagione dei logoranti esami di coscienza. Adesso è giunto il momento di fare, amare, concepire. In una parola, di vivere...