venerdì 23 dicembre 2011

Del Solstizio - e dei nodi che vengono al pettine

Per i capelli ho sempre avuto una vera e propria fissazione. Basti pensare che non ho mai il coraggio di tagliarli e che uno dei miei incubi più ricorrenti è proprio di esserne privata a tradimento.
Così, la metafora dei nodi che vengono al pettine (che mi ricorda così da vicino la mia amatissima Giunchiglia!), per quanto banale, mi sembra perfetta per questo periodo pre e post solstiziale.
Non ho scritto nulla riguardo al mio Solstizio perché, quest'anno, la celebrazione è stata davvero molto (troppo, per parlarne su un blog pubblico!) personale.
Mi limiterò a dire che, nonostante alcune difficoltà manifestatesi durante le ultime settimane, mi sento pervasa dalla sensazione di stare percorrendo la giusta Strada e che tutto stia "quadrando" a dovere - come non accadeva da mesi.
Piccoli segnali, ancora e sempre. Oggetti che cadono, fagotti sigillati con erbe a me care, tagli, preghiere - e infine l'acqua. Che aiuta a dimenticare, che trascina via, nella notte, tutto ciò di cui è necessario liberarsi. Credo di aver cominciato a venire a patti, con questo elemento, a dispetto del mio essere cuspide...
E, da oggi, l'attesa. Del risveglio, di quei minuscoli movimenti sotterranei che riporteranno a noi la Gigantessa e la Vita.

Per tutte le persone a me care, spero che sia stato un Solstizio proficuo - che tutti abbiano lavorato al meglio e che, da qui a Candelora, potranno iniziare a vedere i frutti del lungo sonno (ri)generatore.

E dunque... felice Cammino a tutt*, ci risentiremo dopo queste feste - che non mi (ci) appartengono, ma che mi impegneranno un po'...

giovedì 15 dicembre 2011

Del lupo e dell'abete






Nella grecia antica la pianta elàte, ovvero l'abete bianco, era una pianta "lunare", sacra a Kaineìdes/Kaineùs, una ninfa che chiese a Posidone, suo amante, di essere trasformata in uomo. E' interessante sottolineare come il cambiamento di genere richiami il ritorno all'unità originaria. La vicenda di Kaineìdes fa da contraltare a quella dell'indovino Tiresia: da donna diventa uomo, per poi ritornare alla natura originaria. Un vero e proprio kyklos, che rimanda all'interezza.
Secondo il mito, la forza di Kaineùs era collegata all'abete, cui il guerriero tributava un culto personale. Per sconfiggerlo e abbaterlo, i Centauri (creature duplici) sono costretti a colpirlo ripetutamente con tronchi d'abete. Una volta ucciso, Kaineùs torna ad essere Kaineìdes. Il racconto, in questo senso, richiama l'immagine della morte del licantropo (altra figura duplice) che spesso, nei racconti popolari, dopo che è stato ucciso torna ad assumere sembianze umane.
Le piante solstiziali (ovvero sacre nel periodo compreso fra Calenda e Candelora) hanno come comune denominatore quello di rifarsi esplicitamente (attraverso signa ben precisi) all'alternanza che genera interezza, tipica del kyklos.
E' così per l'abete, legato indissolubilmente al guerriero/donna Kaineùs, lo era per il ciclamino...
Quanto all'elàte, lo ritroviamo nella "tradizione del ceppo" (che può anche essere di quercia, altro albero cosmico), che prevede una lenta consunzione del "ciocco" fino alla notte dell'Epifania: solo in questo modo il rito poteva essere di buon auspicio per la casa in cui era stato realizzato.


E' la duplicità (luce/oscurità, vita/morte, maschile/femminile, uomo/animale), dunque, a traghettarci verso le salubri sponde primaverili, verso il risveglio che avrà inizio con Candelora. E, nel periodo solstiziale, questa duplicità si impone alla nostra attenzione (o almeno alla mia!) attraverso segni inequivocabili (mi sento molto Maria, in questi giorni... e chi partecipa al GdL su Le streghe di Smirne capirà!).
Oltre che dalle piante solstiziali, in questo periodo mi sento molto "ispirata" dalla figura del lupo/licantropo, animale simbolo destinato ad accompagnarci fino alla purificazione/risveglio di Candelora (o dei Lupercalia, se vogliamo seguire il calendario romano pre-cristiano...).
Il lupo come figura archetipica della duplicità saggia (1), della conoscenza che unisce l'uomo all'animale e che non ha bisogno di molte parole. Non è un caso che, nel nostro mondo moderno (impaurito dall'arcano, sempre più asettico, inquinato e improntato verso l'unica logica del profitto), il lupo non trovi più spazio e sia stato spinto sulla soglia dell'estinzione.



«[...] lo sterminio dei lupi appare come uno dei tratti distintivi di una civiltà secolarizzata e artificiale, che ha negato o segregato, anno dopo anno, la morte, la malattia, la follia, il sacro» osserva Marco Veglia nel suo capitolo dedicato a lupi e volpi nell'interessante saggio Animali della letteratura - dove riporta anche la bella storia di Lopichis, antenato di Paolo Diacono, che qui ricopio come testimonianza dell'antico legame che unisce (univa?) l'uomo al lupo - oltre che come conclusione di queste mie riflessioni...

«Un lupo, messaggero del destino, aveva guidato l'avo di Paolo Diacono, Lopichis, per mostrargli il cammino che egli ignorava: il lupo lo precedeva, si voltava di frequente a guardarlo, lo attendeva come sua guida, come sentinella che ne vigilava il cammino. Quando Lopichis, secondo il racconto della Historia Langobardorum (IV, 37), ormai consunto dal digiuno, tese l'arco per uccidere il lupo e cibarsene, il lupo scomparve. Schivato il colpo, l'animale si sottrasse alla vista di Lopichis. L'uomo, lui solo, non il lupo, aveva tradito l'arcano legame che intrecciava i loro cammini.» (2)

Note(1) Per gli Esquimesi, il sole (e dunque la Vita) avrebbe avuto origine dalla lotta fra il Lupo bianco e il Lupo grigio: di nuovo il doppio, dunque...

(2) Aa.Vv., Animali della letteratura, a cura di G. M. Anselmi e G. Ruozzi, Carocci editore, Roma 2010, p. 156-157.

sabato 3 dicembre 2011

Ancora una volta la Luna nei Pesci...

La mia Clizia bellissima...
Ho imparato a essere criptica quando lo ritengo necessario; a raccontare, sì, lasciando tuttavia nel segreto ciò di cui è bene non parlare...
(Il taglio sulle nostre labbra non è forse il segno che il messaggero ci ha lasciato, imponendoci il silenzio?)
Così, qui dirò soltanto che Clizia se n'è andata - anche lei, dopo una malattia che è durata un paio di mesi.
*C.* e io siamo stati e stiamo molto male: poco importa che abbiamo la sensazione che un "Cerchio" si sia chiuso... Clizia non è più qui con noi e questo fa male, indiscutibilmente.

L'abbiamo affidata alla terra, al fico del nostro nuovo giardino. Una guida per i prossimi sentieri che percorreremo, un altro "fantasma felice" per la Casa del Mago.

Addio, Principessa... Sii serena nel tuo Viaggio.

«Dormi, dormi, gatto notturno [...]
Ordina tutti i nostri sogni,
Guida le tenebre nostre
Addormentate prodezze
Con il tuo cuore sanguinario
E il lungo collo della tua coda.»

(P. Neruda, Come dorme un gatto)

lunedì 28 novembre 2011

Le streghe di Smirne ~ GdL

«Non bruci mai il lafano senza motivo e non si sollevi spirito da un'anima turbata. L'ultima luna di agosto, 12893 anni dopo l'edificazione della città degli dèi, salirete tutte sulla cima più alta di questo mondo, con tutte le scritture, lasciando dietro di voi le preoccupazioni, le noie, le religioni, le vostre case e i vostri talismani.
Ognuna di voi prenderà con sé uno dei suoi figli e un figlio del vicino. Fortunati gli animali che vi seguiranno. Là, nel bianco della neve e nel cielo d'agosto, canterete i fuochi che cadranno dal buio. La terra tremerà e le acque lambiranno i vostri piedi. Inneggiate al dono divino. Inneggiate ai secoli nuovi. Inneggiate alla nuova creazione che gli occhi dell'anima vostra potranno godere. E la vostra canzone l'ascolteranno le stelle.
»

(Le streghe di Smirne, di Mara Meimaridi)

Le streghe di Smirne è uno dei romanzi d'argomento "stregonesco" che preferisco. Sarà per la sua ambientazione greca-ottomana (fin da bambina sono appassionatissima di storia e cultura greca); sarà perché la scrittura della Meimaridi è al punto giusto "sanguigna", coloratissima, speziata, carnale. (Senza offese per nessuno, ma a volte le abusate e impalpabili atmosfere "celtico-fantastiche" mi risultano indigeste...!) Oppure, più semplicemente, sarà che in questo romanzo è contenuto l'assunto che ritengo basilare per chiunque pratichi la maghéia, ovvero la necessità di intraprendere un percorso (che, in quanto tale, procederà per tappe) che conduca alla piena consapevolezza finale. (O, per meglio dire, dato che gli "assolutismi" non mi piacciono, alla massima consapevolezza possibile...)

Consapevolezza, protezione, saggezza nelle scelte... Sto riflettendo molto su questi argomenti, nell'ultimo periodo - e dunque mi è sembrato naturale proporre al piccolo "gruppo di lettura" nato senza troppi artefici sul gruppo di FB "Domina Ludi" proprio l'opera prima dell'antropologa Mara Meimaridi.

Le partecipanti al GdL (Gruppo di Lettura) sono le "solite stregacce". Se qualcun altro fosse interessato a prendervi parte, lasci un commento in calce a questo articolo, contenente il suo indirizzo e-mail. Provvederò io a contattarlo al più presto, dandogli le istruzioni necessarie.

Buona lettura!

venerdì 18 novembre 2011

Del ciclamino, caro a Ecate

Considerato fin dall'antichità classica fiore sacro a Ecate (alla quale ho dedicato buona parte delle mie riflessioni durante questa Calenda), il ciclamino deriva il suo nome - come ho già accennato in precedenza - dal sostantivo kyklos, che in greco significa "ciclo", "cerchio".
I commentatori fanno derivare questa denominazione dalla forma arrotondata del peduncolo che si forma al termine della fioritura o dalla particolare curvatura dello stelo.
Queste caratteristiche in parte hanno senz'altro la loro importanza. Ma ciò che più (mi) colpisce, nel ciclamino, è la sua "presenza", delicata e al contempo tenace, durante tutta la Stagione Oscura.

Ciclamini e orchi-dee sulla finestra del soggiorno...
Contrariamente al croco (tanto per citare un fiore tipicamente invernale), non fiorisce verso la fine della stagione - vero e proprio emissario della bella Primavera fra i rigori del "Generale Inverno": il ciclamino inizia a sbocciare ben prima - proprio quando le porte iniziano a (dis)chiudersi e il velo si solleva, lento ma inarrestabile.
Non a caso era sacro proprio a Ecate; e non a caso, dunque, il suo nome, potrebbe derivare anche da questo suo ruolo di autentico "custode" del cerchio che sta per chiudersi.
Plinio il Vecchio, nella sua Historia Naturalis (XXV, 115) dice che ogni casa dovrebbe piantare nei pressi dell'ingresso, nell'orto o in giardino un ciclamino, perché «là dove è stato piantato non possono più recare danno i filtri malefici: lo chiamano perciò "amuleto"».
La funzione protettiva del ciclamino si accorda bene con quella di guida e di protettrice di Ecate (vedere l'Inno a Demetra, nel precedente articolo già citato).
Tuttavia, per quanto benevolo e benefico, il ciclamino non è indistruttibile.
Rispetto, ad esempio, alle orchidee (che, seguendo i loro personalissimi cicli di fioritura e vegetazione, si apprestano in molti casi a ri-fiorire proprio in questa stagione), il ciclamino (almeno quello che amiamo coltivare nei nostri vasi) non è "forte" né "robusto" - non quanto ci aspetteremmo da una pianta così spiccatamente invernale. (1)
Soprattutto nelle zone d'Italia più fredde e umide, il ciclamino soffre spesso di "botride", la caratteristica muffa grigia che colpisce la pianta alla sua folta base, facendone marcire le foglie e gli steli dei fiori e portandola ad un rapido deperimento.
Un ottimo rimedio contro la muffa grigia è la pulizia costante (quasi giornaliera) della pianta, con la rimozione di tutte le foglie ingiallite e dei fiori appassiti. Non basta limitarsi a recidere le parti morte della pianta che rimangono in vista; occorre aprire delicatamente le foglie (il ciclamino è una pianta molto fitta) ed elimare anche tutte quelle parti secche o in decomposizione che rimangono celate. Inoltre è opportuno non esagerare con le annaffiature, versando l'acqua nel sottovaso (anziché direttamente sul terriccio) e avendo cura di rimuovere quella in eccesso.

Come si vede, perfino questi accorgimenti pratici possono condurci ad osserare la familiarità (sempre pericolosa!) del ciclamino con la Marcescenza veicolata dall'Acqua. Per sopravvivere (per superare indenne la Stagione Oscura, con il processo di nigredo che la caratterizza), il ciclamino, esattamente come noi, ha bisogno di Cura, di Equilibrio. Mosse sbagliate o azzardate, durante l'Autunno e l'Inverno, porteranno la pianta a sicura morte - anziché traghettarla verso il rassicurante Sonno primaverile ed estivo.

Chiunque, come me, ami andare a caccia di simboli, può trarre da sé le sue conclusioni...

Nome: Cyclamen
Famiglia: Primulaceae
Diffusione: originario della Grecia, del Vicino Oriente e dell'Africa, il ciclamino è presente in tutto il bacino del Mediterraneo. Predilige i terreni ombrosi dei boschi e la sua tolleranza al freddo varia da specie a specie.

Note
(1) In questo post, ho già avuto modo di sfatare la diffusa opinione sulla presunta "delicatezza" delle orchidee.

Fonti
A. Cattabiani, Florario - Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano 1998.
AA.VV, La natura e i suoi simboli - Piante, fiori e animali, Electa, Milano 2003.

giovedì 3 novembre 2011

Misericordia in obscuro

Durante la notte di Calenda il fuoco ha "risposto" in modo commovente: fuoco di brace per la terra, fuoco di fiamma per l'aria e per il fuoco stesso (fuoco al fuoco!). E infine l'acqua, spruzzata per chiudere il Cerchio e riportare la pace; un elemento per me infido, ma necessario.
E' stata, insomma, una bella Calenda; particolarmente consapevole, sia per me sia per *C.*
I gatti sono stati come sempre meravigliosi: ogni volta rimango commossa, nell'osservare con quanta sensibilità sappiano ascoltare movimenti e messaggi provenienti dalla Soglia. In questi giorni, i miei famigli sono bizzarri, irrequieti. Fanno cose che di solito non fanno e osservarli è uno spettacolo impareggiabile, che mi guida nel completare la mia "pulizia". Ci sono ancora briciole da spazzare via. Piccolezze che vanno in ogni caso affrontate.
Il Giardino (il mio hortus conclusus) deve essere messo a dormire nei giorni giusti. E che l'ultima brezza porti via foglie secchie, rametti spezzati, boccioli e fiori ritardatari!

Ultime fioriture per questo mite autunno...
Le orchidee, invece, sono già in casa da tempo, e una delle mie oncidium, non appena l'ho ritirata, si è affrettata a far spuntare i suoi boccioli: sono vieppiù convinta che non esistano piante più attente (al mutamento insito nel vorticare della Ruota) e attive (intente come sono a "lavorare bene", anche nel cuore dell'inverno) delle orchidee. Esse sono - autenticamente - Vita nella Morte e, insieme al ciclamino (il cui nome, non dimentichiamolo, deriva dalla parola kyklos, "ciclo"), che fa bella mostra di sé sulla finestra del soggiorno, mi rimandano ancora a Ecate, che sa essere benevola (verso chi è animato dalla  sincera volontà di proseguire - come ci racconta il mito) anche nell'oscurità.
Sarà lei a guidare i nostri passi attraverso questa Stagione che si presenta alquanto lenta ai nostri occhi (la nostra impazienza di trasferirci nella nuova casa dilaterà senza dubbio il tempo di questo autunno e del prossimo inverno) e tuttavia insolitamente produttiva.

La mia zucca per Calenda 2011: non a caso l'ho trasformata in una piccola casetta!
CICLAMINO - Dal greco kyklàminos, formato su kyklos, "circolo", "rotondità". Pianticella della famiglia delle primulacee, i cui peduncoli si aggirano in circoli molteplici nel tempo della fruttificazione. (Dal Dizionario Etimologico)
Articoli correlati:
Delle orchi-dee

venerdì 28 ottobre 2011

Ruote, porte e Sfingi

[...] Ma nessuno degli dèi
e degli uomini mortali voleva dirle la verità,
e nessuno degli uccelli venne a lei come messaggero.
Per nove giorni, allora, la veneranda Demetra sulla terra
vagava stringendo nelle mani le fiaccole ardenti:
né mai d'ambrosia e di nettare, dolce bevanda,
si nutriva, assorta nel suo dolore; né s'immergeva in lavacri.
Ma quando infine giunse la decima volta la fulgente aurora
le venne incontro Ecate, reggendo in mano una torcia;
e, desiderosa di informarla, le rivolse la parola e disse: 
"Demetra veneranda, apportatrice di messi, dai magnifici doni, 
chi fra gli dèi celesti o fra gli uomini mortali
ha rapito Persefone e ha gettato l'angoscia nel tuo cuore?
Infatti io ho udito le grida, ma non ho visto coi miei occhi
chi fosse il rapitore: ti ho detto tutto in breve e sinceramente.
(Inno a Demetra, vv. 44-58)

In questo periodo, come Hansel e Gretel inseguo briciole di pane lungo il sentiero... (E chissà se troverò la mia personalissima strega-Sfinge - non affamata, ma desiderosa di proporre enigmi.)

Kay Nielsen illustra Hansel e Gretel.
Prima la Sfinge, quindi. Poi alcune parole, che come una cantilena si affacciano di continuo nella mia mente - e nei piccoli avvenimenti della vita quotidiana: dapprima discrezione (che deriva dal participio passato del verbo discernere, ovvero "saper scegliere"); quindi (ora, proprio in questi giorni!) consapevolezza, cioè "avere piena cognizione della cosa in discorso".
L'indovinello della Sfinge è ciò che ci conduce alla piena conoscenza del Sé e del Cosmo, attraverso un lento (forse anche doloroso) procedimento di nigredo...
E tra Sfingi, parole, ruote, porte che si aprono e si chiudono all'approssimarsi di questa Calenda, è impossibile, per me, non ritornare a uno dei miei archetipi preferiti: Ecate.

Ci ho riflettuto molto, è stata una tappa obbligata del mio percorso. Poiché Ecate è un archetipo di discrezione e di consapevolezza al sommo grado: Ecate E' la Sfinge allo specchio!
Il brano che ho riportato all'inizio di questo post lo rivela chiaramente. La dea, che si palesa all'alba del decimo giorno (il rimando è alla Tétraktys pitagorica, la "Grande Madre che tutto abbraccia e delimita") è l'unica fra gli dèi a muoversi in sostegno a Demetra, disperata per la scomparsa di Persefone. Pur non avendo visto il rapitore, avanza verso Demetra con la sua fiaccola e la aiuta a scoprire la verità sulla scomparsa della figlia.
Non è solo un ritratto deliziosamente "umano", quello tratteggiato dall'Inno; è anche (e soprattutto) corrispondente alla reale funzione "maieutica" di Ecate.
Relegare questa divinità all'unico ruolo di potenza infernale non è solo sbagliato, ma conduce a una errata (e pertanto pericolosa!) interpretazione dell'archetipo.

Ecate NON è Kali.
Ecate è, al contrario, una delle più belle rappresentazioni del kyklos; è la Ruota che gira e si rinnova, è la "trottola magica", capace di ispirare visioni profetiche e, dunque, di condurre alla conoscenza (alla consapevolezza!) mediante un percorso (circolare) di Morte e Rinascita.

Imagini de li dei de gl'antichi di Vincenzo Cartari Reggiano, Venezia 1556.
Del resto, nell'Inno orfico a Ecate, la dea viene sì definita "sepolcrale", "baccheggiante", colei che cammina "con le anime dei morti"; ma anche "signora che custodisce tutto il Cosmo". E, ancora, non si può dimenticare che tra le sue piante sacre vi sono il ciclamino e il croco: entrambi fiori (fiori!) che sconfiggono, con la loro bellezza e i loro colori, la Morte e l'Rigido Sonno della Stagione Oscura...

Così, se la Sfinge ci pone un interrogativo (come molto spesso amano fare le donne e i felini, di cui la Sphynx con/divide la natura!), Ecate, con le sue fiaccole, la sua indole incapace a tacere della verità («Ti ho detto tutto, in breve e sinceramente», afferma nell'Inno a Demetra) sarà capace di guidarci, attraverso la nigredo, sino alla Risposta. Figura mediana (il suo legame con le forze infere non deve essere in toto negato; occorre solo com-prenderlo nella giusta prospettiva), ella - maieuticamente - ci condurrà attraverso un processo che ci (ri)porterà alla Luce mediante l'attraversamento di Soglie obbligate...

giovedì 13 ottobre 2011

Afonia



Oggi siamo afoni entrambi. Di nuovo, tesoro mio...
E per questo ti adoro oltre ogni limite, mio impareggiabile Guardiano di Soglia...

martedì 11 ottobre 2011

Della Sfinge e degli specchi

Ne parlavo nel post precedente, della Sfinge e del suo essere ferma, non immobile.
La figura della Sfinge non mi ha mai intimorita. Sento raccontare storie sul suo conto fin da quando ero bambina. Nei giardini di Casale Monferrato in cui mi portava mio padre da piccina, c'era una sfinge in pietra senza testa: su di essa si inventavano un sacco di favole meravigliose, perché si diceva che, da quel punto, si snodasse un cunicolo che attraversava sotto terra tutta la città.
Papà me le ripeteva, quelle favole, e per me era una magia andare ai giardinetti solo per rivedere la "mia" sfinge.


Sfinge allo specchio...

In verità credo che ci sia qualcosa di rassicurante nel suo restare in paziente attesa delle risposte che dovranno arrivare. Se le conseguenze saranno terribili (come nel caso di Edipo), la colpa non sarà della Sfinge, ma dell'umana cecità.
La Sfinge ci mette di fronte a enigmi importanti - sta a noi riuscire a risolverli.

Le Sfingi classiche, la cui iconografia è diffusissima, in verità, sono piuttosto statiche. Immobili nella loro pietra, nelle loro gigantesche monolitiche zampe di leone, lo sguardo (cieco) fisso all'orizzonte...
Bellissime, ma non sono le MIE Sfingi - le Sfingi di QUESTO periodo...

Preferisco di gran lunga la "Sphynx" di Franz Von Stuck, che ho utilizzato per illustrare il mio post precedente. Una Sfinge interamente umana, di carne e sangue, con un corpo di donna nella parte superiore come in quella inferiore. Una Sfinge, come dicevo poco sopra, ferma (lo si percepisce dalla sua postura, dalle gambe distese e allineate, dai gomiti appoggiati sul drappo rosso: è una creatura in riposo - ma che potrebbe muoversi in qualunque momento, qualora lo desiderasse), con lo sguardo non cieco, ma fisso in un punto indefinito, fuori dalla tela e lontano dall'osservatore. Una Sfinge senza orpelli, in attesa delle "sue" (nostre?) risposte.
Per affrontare l'Enigma, infatti, dobbiamo spogliarci d'ogni inutile ornamento e di ogni velleità. Per parlare con la Sfinge (la cui funzione, in verità, è quella dello speculum - che in latino vuol dire tanto "specchio" quanto "immagine"), dobbiamo usare con lei e per lei una delicatezza felina (di nuovo i gatti, sì! E, dopotutto, lei non è forse per metà leone?): evitare ogni invadenza, ripudiare le chiacchiere inutili, preferire la discrezione, il dialogo silenzioso che si svolge su livelli "altri"...

Ed è proprio sulla Sphynx che voglio lavorare in questo periodo... Tacere e lavorare. Tutto mi conduce a lei: la (ri)scoperta (qualora ce ne fosse bisogno!) del valore della discrezione, la Ruota che gira, lo "specchio nero", la verità che si svela con uno strappo secco - facendo quasi male nella sua lucentezza. La Sfinge aspetta. Lei non ha fretta; ma io sono impaziente di proseguire nel mio (nuovo - e tuttavia vecchissimo) Cammino...

O nuova stirpe del vetusto Cadmo,
figli, perché, venuti alle mie soglie,
tendete i rami supplici? D'incensi,
di peani, di pianti, è piena tutta
la città. Figli, non mi parve bene
chieder notizie a messaggeri: io stesso
son qui venuto: Edipo: il nome mio
è chiaro a tutti. – O vecchio, ora tu dimmi,
ché degno sei di favellar tu primo,
perché veniste? Per pregare? O quale
terror vi spinse? Ad ogni modo io voglio
darvi soccorso: se di tante preci
non sentissi pietà, non avrei cuore!
(Sofocle, Edipo re)


Un'altra "Sfinge umana": la Sphynx di F. Drtikols (1913).

DISCREZIONE: dal latino discretum, part. pass. di discèrnere, ovvero "distinguere": facoltà della mente per la quale l'uomo discerne e giudica con dirittura...

martedì 4 ottobre 2011

Settembre - e poi ottobre...

Sul mio quaderno avevo scritto tanti begli appunti, sul mese di settembre... Poi, la malefica (e dolorisissima!) tendinite mi ha impedito di trascriverli sul blog quando avrei voluto.
Di settembre avevo scritto (sulla carta, che è pur sempre il supporto che preferisco) cose "nere": non è stato un buon settembre, né per me né per coloro che mi circondano. Un settembre dominato dalla figura (insopportabile, a volte) dell'Appeso, dal "canto del capro" - che porta sempre alla fine di qualcosa, alla sua recisione.
Settembre, del resto, mi ha sempre lasciato "l'amaro in bocca". Se, infatti, climaticamente parlando, nella maggior parte dei casi è ancora un mese estivo, caratterizzato da temperature gradevoli che consentono di fare le ultime gitarelle fuori porta, da un punto di vista simbolico l'ho sempre considerato come un interludio che ci attende prima della discesa verso la Stagione Oscura. E, come tutte le porte socchiuse a metà, anche settembre - pure così gradevole per la maggior parte delle persone - può presentare qualche problema dal punto di vista dell'energhéia.

Ottobre, non a caso, si presenta con sfumature di colori e d'atmosfera più decise, rispetto al mese che l'ha preceduto.
Siamo nel mese dello Scorpione (che io non amo, ma che mi appartiene profondamente, essendo io una cuspide Scorpione-Sagittario), simbolo della «stagnazione e della macerazione» come ricorda acutamente il Cattabiani. Lo Scorpione che veicola la morte (la discesa verso il Basso), ma solo come preludio al ritorno della Vita (l'elevazione di Orione alle stelle: per aspera ad astra!). Siamo all'interno della Tetraktys, che è principio di ogni cosa. Siamo (ancora) sotto il segno di Dioniso, che ci (ri)condurrà alla Luce attraverso il "furore" mortifero, la frenesia del brulichìo, che precede l'andare in frantumi prima della (ri)composizione.

I Tlingit pellerossa chiamavano Ottobre "il mese delle bestie che si rintanano". Senza andare troppo lontano, anche qui, nelle nostre campagne (dove, nonostante le colture industriali, in parte si sono ancora conservati i ritmi naturali), è tutto un fervore di preparativi in onore della stagione oscura. Si vendemmia, si taglia il riso. Si tagliano le ultime erbe, si raccolgono gli ultimi semi. Ci prepariamo tutti (chi più, chi meno consapevolmente) alla discesa.

Anche a casa la situazione si sta ristabilendo. Anche *C.* ha iniziato la sua personalissima nigredo - che speriamo porti buoni frutti. Non è casuale che abbia cominciato il suo percorso proprio a Ottobre...
Io, intanto, aspetto. Tiro fuori la Ruota - e aspetto. Ferma come una Sfinge, aspetto. Badate che ho detto "ferma", non "immobile": la Sfinge non rimane ferma perché pietrificata; non si muove perché sa attendere le risposte che dovranno venire. E io cerco di fare altrettanto. Cerco di pianificare per bene questa Discesa, perché so che sarà per me duplice e impegnativa. Per questo ho bisogno di essere centrata, coi piedi ben piantati nella terra: sarà da quel baricentro che rinascerò - che rinasceremo...


La Sfinge di Franz Von Stuck.

mercoledì 7 settembre 2011

Della cecità

Non è difficile. Basta seguire le briciole gettate lungo il cammino - e avere pazienza: il percorso, l' "inseguimento" di tutti i segnali può durare anche anni.
A me è successo con I ciechi. Diverse visite al vecchio paese "cieco", fotografie, sopralluoghi notturni insieme a *C.* e a Mara - eppure il racconto non si concretizzava mai. Tutto quello che sapevo, fino a poche ore fa, era solo che il protagonista per ovvie ragioni (ovvie soltanto per me!) avrebbe dovuto lo "specchio" di Andrea. Un po' poco, per scriverci una storia.
E poi, all'improvviso, dopo una variegatissima chiacchierata con Nyc, torno alla scrivania e leggo questa frase di Fabio Rosa:

«Il buio degli occhi, che per gli antichi era attributo dei veggenti, è ormai divenuto IL BUIO DI DIO, di cui soltanto il cieco fa esperienza» (Fabio Rosa, "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Mito e sguardo in Pavese", in L'occhio, il volto. Per un'antropologia dello sguardo).

Ecco cosa c'era (o avrebbe dovuto esserci: declinate il verbo come più vi aggrada) nelle case cieche di Brusaschetto Basso: il dio cieco, Abbaton.


Hugo Simberg, Blessed Angel

Chiunque lo scorga, è destinato anch'egli a morire e a diventare un veggente. Le due cose più o meno si equivalgono...

«La vision s'éteint avec la lumière: les morts sont des aveugles, et songer qu'on est aveugle est un signe de mort...» (Waldemar Deonna, Le symbolisme de l'oeil)


I "ciechi" di Brusaschetto Basso. Fotografati dalla Canidia almeno 5 o 6 anni fa: oggi il paese non esiste più...

mercoledì 31 agosto 2011

Della magia antica - Parte IV

III parte

La pratica rituale del maleficio

Dopo aver specificato che cosa comprenda il termine maghéia nel mondo greco-romano (divinazione, culti misterici e magia nociva); dopo aver spiegato chi fosse il mago nel mondo antico, prendendo spunto dall'autorevole fonte del De magia di Apuleio; e, infine, dopo aver spiegato come e perché la magia fosse per gli antichi un vero e proprio tramite col divino, è giunto il momento di analizzare in breve l'argomento (affascinante quanto pericoloso) delle defixiones.

Le fonti sono numerose e vanno da Platone a Plinio il Vecchio, comprendendo un buon numero di papiri. Il più completo e particolareggiato di questi ultimi si trova oggi al British Museum e, nella sua parte iniziale (non copierò per intero le defixiones in questo post), recita:

«Io lego NN a questo o quel fine: ch'egli non parli, ch'egli non si opponga, ch'egli non possa né indagare né parlare contro di me... (ecc.)».

Le defixiones potevano essere di diverso tipo:

1) iudicariae, attraverso le quali il mago tentava di nuocere agli avversari nel corso di un processo; il corpus principale, di questo genere di rituali, proviene da Atene (V e IV secolo); ma ve ne sono anche provenienti dalle zone e dalle epoche più disparate;

2) amatoriae, che hanno lo scopo di suscitare amore nella persona desiderata (vedi le Trichinie di Sofocle);

3) agonisticae, che coinvolgono la contesa agonistica; numerose soprattutto in epoca imperiale;

4) defixiones contro ladri e calunniatori (numerosissime provenienti dal santuario di Demetra di Cnido);

5) defixiones contro avversari economici (papiri magici a partire dal IV secolo).


Bambolina utilizzata per una defixio egiziana.

Da notare che, in tutte le fonti, grandissima importanza viene attribuita al rituale in quanto tale (particolare interessante: come se il rituale in sé fosse un elemento "catartico", capace di "sciogliere" le resistenze razionali, per fare spazio alla maghéia, al "sollevamento del velo").
La prima fase, quella dell'enunciazione, si articola in tre punti: 1) l'enunciazione fatta in prima persona singolare ("Io lego ecc."); 2) il discorso rivolto a una determinata potenza divina (divinità ctonie, Ermes "che trattiene"...); 3) il parallelismo fra ciò che sta compiendo il mago e quanto si auspica accada alla vittima.
Le defixiones venivano in genere eseguite nei pressi di tombe o in santuari dedicati (come già accennato) a divinità ctonie (Demetra, Persefone, le Ninfe) - dunque in stretto contatto col mondo dell'aldilà: il movimento del maleficio, dunque, è un movimento verso il basso, verso il centro della terra - in netta opposizione coi culti ufficiali che, al contrario, si rivolgevano agli dèi superi e, quindi, proponevano un movimento ascendente. Il rovesciamento è un tratto distintivo della maghéia.
Il testo delle defixiones veniva scritto su lamine di metallo e interrato presso una tomba, allo scopo di renderlo duraturo (seconda fase). Le parole divengono dunque veicolo di morte.

«Prendi della carta ieratica o una lamina di piombo»

raccomanda un papiro conservato al British Museum, dove per "carta ieratica" si intende del papiro di ottima qualità. In alternativa, si potevano usare anche tavolette di cera.
In alcuni casi, si utilizzavano vere e proprie "figurine", simili alle bamboline vudù. In una tomba del Ceramico ateniese (databile 400 a.C.) è stata infatti ritrovata una scatoletta, chiusa da una lamina di piombo (con su scritta una defixio giudiziaria) e contenente una statuetta maschile (anch'essa in piombo), raffigurata con le mani legate dietro la schiena. Da notare che il coperchio della scatola è trafitto da due fori paralleli; il simbolismo è evidente: si vuole "legare" la vittima del maleficio, spingerla verso il regno dei morti. In altri casi (alcuni esempi sono conservati al Louvre) sono le statuine stesse, a essere trafitte dai chiodi.
L'atto centrale è, in ogni caso, il katadein, il "legare". Il legame col mondo ctonio deve essere (affinché la maledizione vada a buon fine) permanente e durevole e, affinché esso sia possibile, la figurina deve rispecchiare le caratteristiche fisiche della vittima (magia "simpatica" - seconda fase bis): per questo sovente la si ornava con unghie, capelli, frammenti di abiti.
Solo in questo caso poteva verificarsi quel "movimento verso il basso" capace di trascinare la vittima del maleficio verso la propria rovina.

«[...] che essa abbia le braccia legate dietro la schiena e sia inginocchiata, e che la materia sia fissata sulla sua testa o intorno al suo collo...» (rito egiziano).

[Continua.]

martedì 26 luglio 2011

Del ritorno di Medusa

Nyc mi dice che devo "guardare" (o meglio, "vedere"?), perché sono distratta. E naturalmente ha ragione.
Durante l'ultimo mese, è come se avessi tenuto sempre lo sguardo abbassato, fisso sulla punta delle mie scarpe.
Facevo un sogno ricorrente, da bambina. Sognavo di entrare in una stanza, nella casa di campagna dei miei genitori. Sapevo che in quella stanza c'era Medusa, la terribile impetratrice; oppure la sentivo arrivare alle mie spalle, ascoltavo i suoi passi lungo la scala di legno, mentre scendeva per raggiungermi. Ero consapevole della sua presenza in casa e così non alzavo mai lo sguardo.
Nei sogni, vedevo le mie ciabattine rosse, le mattonelle del pavimento, le mie ginocchia. Oltre le ginocchia non guardavo, perché, nel caso l'avessi fatto, sapevo che sarei morta.

E' così che mi sento in questi giorni. Non guardo. Forse neppure ascolto.
Non è particolarmente intelligente, come atteggiamento; ma altro non so fare.

Domani, comunque, Lei e io ci incontreremo di nuovo. Non credo che ci sarà una gran partita. E io non indosserò (più) ciabattine rosse che potranno salvar(ci).


Nanoo G.
(Morte nera, morte nell'acqua...)

lunedì 11 luglio 2011

Eros & Thanatos

Del mio rapporto con l'acqua avevo già parlato (in parte) qui.
Quello che non avevo mai detto (forse) è che l'acqua "mi chiama"; in momenti ben precisi della mia vita; negli periodi di svolta (quelli in cui è necessario cambiare qualcosa, se non si vuole essere trascinati verso il fondo); quando esco da una delle mie "lunghe notti"...
Mi chiama attraverso i libri (finché ero ragazzina, non ero mai riuscita a spiegarmi per quale motivo, nata e cresciuta fra montagna e collina, incapace di nuotare e con scarsissima dimestichezza con l'elemento acquatico, fossi a tal punto affascinata dai romanzi di mare... ora lo so...), attraverso la poesia, per mezzo di una pulsione fortissima che mi spinge a partire. Incomincio a ripetere (a chiunque abbia voglia di ascoltarmi... e anche a chi farebbe volentieri a meno di sopportare i miei borbottii!) che "devo andare" e infine, dopo qualche giorno di vera e propria irrequietezza, prendo asciugamani e crema solare e vado. Anche solo per una giornata - o una notte. Non ha importanza.

Perché l'acqua è Eros e Thanatos, Amore e Morte nell'immediato. Anche la Terra, ovviamente (se si vuole, tutti gli elementi contengono al loro interno il kyklos); ma la Terra è meno veloce, meno irruente. La sua forza è nel tempo, quella dell'acqua (del mare!) nell'attimo.
Moby Dick (tanto per tornare ai miei cari vecchi polverosissimi libri), l'angelo bianco e mortifero, di colpo appariva e di colpo se ne andava, col suo strascico di fantasmi...



Dunque, vi dicevo - disse Fedros - non ricordo nemmeno cosa ; perché il ricordo è nato ora,
e l'ora bisogna rammentarlo perché diventi sempre. Una botte enorme
dal monte rotola nel mare. O, notturnodiurni colori,
cambi di guardia, marinai, mozzi, comandanti di bastimenti, puttane,
l'ombra verde della grande nave e i delfini che dormono sul fianco destro
e i fuochisti ubriachi che fanno lunghe pisciate in acqua
e la fica aperta della luna, smangiata, rossorosa sopra le alberature delle navi.
Lèvati la rosa dai capelli, dunque; lèvati anche le scarpe bianche;
così, mia gioia. Migliaia di pesci passeggiano per aria, migliaia di stelle nel tuo sangue.
(G. Ritsos, Il funambolo e la luna)

(E c'era, poi, quell'immagine che mi hai messo in testa, dei granelli di sabbia: io dicevo che non riesco a trattenerli, che scivolano tutti via - e tu m'hai risposto, a sorpresa, che qualcuno rimane pur sempre attaccato alla mano... E se questo non Eros nel mio Thanatos allora non so che altro sia...)

lunedì 4 luglio 2011

Delle rondini che fanno (sempre) primavera

La mitologia greco-romana racconta che Tereo, marito di Procne, figlia del re di Atene, abusò crudelmente della sorella di quest'ultima, Filomela e, affinché la ragazza non rivelasse a nessuno la violenza subìta, le tagliò la lingua.
Filomela, tuttavia, riuscì a raccontare ugualmente a Procne quanto accaduto, ricamandolo sulla stoffa. Procne, sconvolta, uccide il figlio avuto da Tereo e lo dà in pasto al marito. Quindi fugge insieme a Filomela.
Tereo, inorridito dal macabro delitto compiuto dalla moglie, insegue le due donne, che invocano la protezione degli dèi: Procne vien perciò trasformata in rondine, Filomela nell'usignolo dalla bellissima voce e Tereo in upupa.

Nel Medioevo si credeva (nota simpatica), che fosse in grado di guarire i suoi piccoli da eventuale cecità per mezzo della linfa della celidonia, chiamata appunto anche "erba delle rondini": una specie di angelo Raffaele in livrea bianca e nera, insomma. E di certo un animale benevolo, simbolo della Luce che ritorna sempre, al termine della Stagione Oscura. (Di nuovo il Ciclo, di nuovo la Ruota!)

In Africa, essa viene considerata inoltre simbolo di purezza, perché, non posandosi mai a terra, evita di contaminarsi con la sporcizia del suolo.




Il "rondinino" catturato da Victor.

L'altra sera, mentre esco in cortile per andare a gettare la spazzatura, sento *C.* che grida: «Corri, corri, Victor ha preso qualcosa!».
Come tutti i gatti, anche i miei non scherzano, in quanto a crudeltà: devono sempre catturare qualche esserino indifeso, ucciderlo e poi lasciarmelo privo di vita sullo zerbino...
Perciò mi preparo al peggio: corro dietro al gatto (in maniera abbastanza comica, gettando all'aria il mio sacchetto di immondizia) e vedo che un volatile pende dalla sua bocca, con le ali spiegate, simile a un piccolo crocifisso. Acchiappo Victor per la collottola e lui molla la presa con un disarmante "miao"... (Come a dire: "Non ho fatto nulla di male, io!")

Non appena i denti del gatto scattano, l'uccello, a sorpresa, svolazza a rintanarsi dietro agli amarilli e poi ancora dietro alla "miseria". Segue un discreto parapiglia, con Victor che inseguiva il piccoletto che tentava invano di riprendere il volo e *C.* e io che inseguivamo Victor. Cagliostro si gustava la scena dalla finestra del soggiorno, guardandoci come se fossimo tutti impazziti.
Alla fine riusciamo a prendere il piccolo e a dare qualche crocchetta di consolazione al micio.
In casa, controllo per bene il rondinino (tale mi era parso alla scarsa luce del faretto d'illuminazione del cortile ma, ad una più attenta osservazione, mi è sembrato un balestruccio) e quasi non ci credo: nonostante Victor l'avesse afferrato e nonostante fosse stato sbatacchiato di qua e di là era completamente illeso e desideroso di volare!
Rimetterlo in libertà di notte, però, col cortile e i tetti tutt'intorno affollati di gatti e civette sarebbe stato troppo rischioso. Così l'abbiamo ricoverato in una scatola da scarpe, imbottita per l'occasione con un morbido panno, e gli abbiamo fatto trascorrere le ore successive in casa: inutile dire che era talmente esausto, per via delle forti emozioni provate, che si è addormentato subito e non si è più mosso fino all'alba.

Il mattino seguente l'abbiamo liberato: come sempre, quando apri le mani per lasciarli andare, provi sensazioni indicibili... E a me, come sempre, piace pensare che nessun incontro è fortuito e che gli animali (in modo particolare gli "psicopompi") entrano - seppure per breve tempo - nella nostre vite per segnalare una svolta, per dare una speranza, per consegnare un messaggio che è necessario decifrare... Perché proprio una rondine? Perché proprio di notte? Perché scampata fortunosamente alla morte? Perché nelle mie mani? (E perché catturata proprio da Victor, l'ultimo arrivato? E ancora: perché Cagliostro - che pure caccia, lo so bene! - non mi porta mai la Morte sulla soglia di casa, come fanno gli altri?)
Non ho le risposte a tutto. E, quelle poche che riesco a darmi, non voglio trascriverle. Cerco di seguire il flusso, tutto qui... Nell'acqua, nel volo, nell'aria. Nei segni.

(Per tornare coi piedi per terra, in questo post avevo dato qualche "dritta" sul primo soccorso da prestare ai rondoni...)

domenica 26 giugno 2011

Della porta degli uomini (che si schiude...) - parte II


La campagna panica - Notte di San Giovanni


Famigli all'erta...


Guardiani: il "salice dei folli"...!

giovedì 23 giugno 2011

Della porta degli uomini (che si schiude...)




Ti saluto e ti invoco, bella Luna, stella lucente,
brillante luce che nella mano io tengo,
per l'aria che respiro,
per l'aria che è dentro di me,
per la terra che tocco;
io vi invoco in nome di tutti gli spiriti,
principi che a voi presiedono...


Emma irrequieta ed esploratrice, Cagliostro vicinissimo. Le erbe pronte sul tavolo. La bisaccia sul divano...
Prepariamoci, è l'ora in cui la Porta di Borea si schiude!
Buon Gioco a tutte!

martedì 14 giugno 2011

Dell'inguaribile paura del buio

Non ho paura del "Grande Salto", se lo penso riferito a me stessa. Ne ho paura quando so che potrà toccare a qualcuno dei "miei": le persone che amo, i miei famigli.

Li adoro, i miei animali; allo stato attuale delle cose, siamo riusciti a costruire un equilibrio bellissimo, che ha del miracoloso.
Li osservo spesso: ciascuno ha il proprio ruolo, il proprio linguaggio, le proprie "capacità sottili" - e ogni elemento entra in armoniosa relazione col resto. Con gli altri famigli, con me, con la casa...

Di recente, abbiamo concluso l'atto d'acquisto per la nuova casa. Non ne ho ancora la certezza assoluta (e quando mai io ho avuto certezze assolute?), ma credo che la battezzerò "La Mandragora".
Ne ho dato l'annuncio su Facebook (maledetto arnese!), ho pubblicato qualche foto. Sono contenta, certo. L'idea di poter sistemare la nuova casa esattamente come piace a me e a C., di riuscire a ordinare gli spazi nella maniera più funzionale (finalmente!), di avere uno studio tutto per me, un orto tutto per C. e un cortile tutto per i gatti (senza pericoli)... è un ottimo carburante per la mia ben nota apatia.

Sul diario, l'altra sera, riflettevo sui luoghi. Scrivevo che «i luoghi non ci appartengono. Siamo noi che apparteniamo ai luoghi, finché possediamo respiro». E' sempre stato così.

Ed è così anche per le creature che amiamo. Sono contenta che Mickey abbia visto la nuova casa.
Adesso lui è qui, acciambellato vicino a me, mentre scrivo - come ha fatto per dodici anni di vita. E io continuo a ripetermi che, in un modo o nell'altro, devo cominciare a lasciarlo andare. E' il suo "Grande Salto", non il mio. E' per questo che sono terrorizzata.

Cagliostro lo sente. Non me lo scollo di dosso, questa mattina. Lui è il Guardiano, se ne intende di Soglie. E Clizia - Clizia lo ha visto, forse prima di tutti noi. Emma, al contrario, pare imperturbabile: anche in questo caso seguono il solito copione: lei non è forse la Rasserenatrice?

Quanto a Mickey, con lui non voglio parlare di questo. Lo tengo vicino, semplicemente - e maledico il lavoro che mi porterà lontano da lui ancora per qualche ora. Lo tengo e lo terrò, finché posso...

lunedì 6 giugno 2011

Notturni

Parlano. Gli animali. Le Intelligenze vegetali. Le stelle. L'acqua. La montagna (che chiama...).
Io sono quella che raccoglie le piccole cose, che fa caso alle parole appena sussurrate, ai gesti incompiuti - di cui si può percepire solo un tenue accenno.
Tutto si ri-collega. La sinfonia ha ripreso forza.
E' bellissimo.





venerdì 3 giugno 2011

Della magia antica - Parte III

II parte

La magia come dono divino

«Durante il viaggio, mi era capitato di avere per compagno di navigazione un uomo di Menfi, uno dei sacri scribi, dalla sapienza eccezionale, profondo conoscitore di tutta la scienza egiziana; dicevano di lui che avesse abitato per ventitré anni sotto terra, nei sacri penetrali, e che fosse stato istruito all'arte della magia da Iside.»

La magia, secondo gli antichi, era un dono divino: i maghi più potenti (come Pancrate) erano tali in quanto, in passato, erano stati allievi di "dio" in persona.
Accade a Tessalo di Tralle, medico di età neroniana, che disse di essere stato introdotto all'arte della magia da Asclepio in persona; ed è quanto affermato dall'autore del "papiro Mimaut", conservato al Louvre: «Non esiste una procedura più efficace di questa. Essa è sperimentata e approvata da Manetone, cui è stata data in dono da Osiride il Grande».
Lo stesso viaggio di Giasone in Colchide potrebbe essere visto come un autentico viaggio iniziatico, che culmina (appunto) con l'incontro con la magia, impersonata dalla "strega" Medea. Per i Greci, insomma, l'apprendistato magico non può avvenire senza iniziazione e tale iniziazione deve sempre e comunque avvenire per volontà e per tramite della divinità. I miti ci tramandano spesso questa concezione: oltre alla già citata spedizione di Giasone, si pensi a Cassandra che, dopo aver rifiutato la divinità (Apollo, in questo caso), perse anche la capacità di far valere il proprio potere fra gli uomini.


Rotolo magico-religioso conservato presso il Museo Egizio di Torino: in esso si narra della generazione di tutto il creato dal Caos e viene riportato il rituale per sconfiggere Apopi, il serpente maligno.

Communio eloquendi cum dis: in età imperiale, anche i neoplatonici ricercavano il contatto col divino, attraverso la teurgia.
E' quanto accade al celebre Apollonio di Tiana, che trascorse la sua giovinezza nel santuario di Asclepio di Ege, in Cilicia, dove restò in costante contatto col divino attraverso i sogni. Allontanatosi dal santuario, trascorse un periodo della sua vita in assoluto silenzio, rifiutando la comunicazione con gli uomini. Infine, per quattro mesi, fu discepolo dei bramini indiani, dove perfezionò la propria spiritualità, il proprio contatto con la dimensione religiosa.

Magia e gnosticismo, dunque. Le principali fonti che testimoniano questo legame sono (ancora una volta) i papiri magici.
Secondo essi, esistono molteplici vie per stabilire un contatto col divino.
La principale consisteva nel venire a conoscenza del nome di una divinità: l'eterno mistero dei nomi di dio. Conoscendone il nome, essa poteva essere invocata: l'azione magica, in quel caso, sarebbe stata più potente, in quanto veicolata dalla divinità stessa.

«Io sono quello che hai incontrato ai piedi della montagna sacra e al quale hai concesso di sapere il tuo nome più grande.» (Papiro di Leida)

Da notare bene che, una volta stabilito il contatto col divino (per mezzo della Parola per eccellenza, il nome) il mago si distingue sia dagli estatici sia dai gnostici: i primi, infatti, si accontentano dell'esperienza con dio (come le terribili Menadi, che esauriscono il loro furore nella comunione con Dioniso); i secondi, mirano al raggiungimento del massimo sapere.
Il mago, al contrario, è una personalità po(i)etica e, come tale, desidera realizzare qualcosa di concreto (o quanto meno tangibile sul piano dell'esperienza umana) attraverso il suo rapporto col divino: non a caso i maghi antichi avevano spesso intenti vendicativi.

Per questo, il rito d'iniziazione possedeva un'importanza particolare.

«Incoronati con dell'edera nera quando il sole è a metà del cielo, all'ora quinta; guardando verso l'alto, coricati nudo sul lino e fatti coprire gli occhi con un nastro tutto nero. Fatti avvolgere come un cadavere, chiudi gli occhi, e - sempre rivolto verso il sole - pronuncia, per cominciare, queste parole... Quando reciterai questo incantesimo, ci sarà per te questo segno: un falco scenderà e si drizzerà davanti a te; dopo aver sbattuto le ali in aria, lascerà cadere una poetra oblunga e riprenderà subito il volo verso il cielo.»

I rituali possono essere di due tipi: di iniziazione vera e propria, per "trasformare" un laico in mago; o di "promozione", per aumentare i poteri di un mago.
Anche in questi casi, le istruzioni riguardanti le modalità del rituale, utilizzano il linguaggio misterico; e non di rado il rito mira a far nascere l'iniziato a nuova vita.
Molti di questi riti (ci tramandano i papiri) avvenivano nel periodo della luna nuova, momento di passaggio (particolarmente propizio a tutti i gesti magici) in cui i Greci deponevano pasti ai crocicchi per l'oscura Ecate. Si tratta, in questo senso, di cerimonie atte a segnare l'ingresso in nuovo mondo, nelle regioni dell'ou-topia.


Piccolo altare per il culto di Ecate. Da Pergamo, età ellenistica.

In generale, è da notare quanto importante sia la parola (lògos) quale tramite irrinunciabile verso la divinità e, dunque, verso la forma più alta di maghéia. Senza la parola (che in certi casi si trasforma, divenendo incomprensibile - indicibile - per i comuni mortali) non esistono Conoscenza, Com-prensione: muti (nel senso "magico" del termine, ovviamente!), non ci avviciniamo di un passo al divino.
(Sulla parola e sulla forma, rimando pretenziosamente a un mio vecchio articolo...)

[Continua.]

sabato 30 aprile 2011

Dell'aquilegia di Calendimaggio


La mia Aquilegia di Calendimaggio.

Mi piace definire l'Aquilegia una "potenza in quiete"; nel senso che questa Intelligenza possiede potenzialità che sembra preferire tenere nascoste agli occhi dei più - e il dialogo, con lei, è sempre gentile, appena sussurrato. Occorre un udito allenato, per "ascoltare" l'Aquilegia. Non a caso è una pianta amatissima dai poeti e dagli artisti del passato.

Appare in numerose opere pittoriche, quasi sempre collegata con la figura della Madonna.
Secondo alcuni commentatori, infatti, questa pianta così delicata sarebbe il simbolo del dolore provato da Maria per la morte del figlio in croce. Questo per l'assonanza del nome francese dell'Aquilegia (ancholie) e il termine "melancholie", malinconia. Nell'arte pittorica del Rinascimento, l'Aquilegia venne spesso associata alla Passione di Cristo.
Si tratta, dunque, di un'Intelligenza consapevole.


Bernardino Luini, Madonna del Roseto (1505-1510).

Viene anche chiamata "colombina", per via dei sei fiori che crescono (a volte) in cima allo stelo: sarebbero, secondo l'interpretazione cristiana, i sei doni dello Spirito Santo menzionati in Isaia 11,2: «Lo Spirito del Signore riposerà su di lui: Spirito di saggezza e d'intelligenza, Spirito di consiglio e di forza, Spirito di conoscenza e di timore del Signore». Al di là di quanto affermato dai commentatori cristiani, è evidente, in ogni modo, la delicata "fortezza" dell'Aquilegia, quel suo saper "vedere", "conoscere" e "capire" senza cedere, al di là di ogni aspettativa. Perfino il suo aspetto, così apparentemente fragile eppure resistente a qualsiasi intemperia e ai rigori dell'inverno, è, a mio avviso, un indice evidente delle potenzialità di questa pianta.

Leonardo da Vinci ne aveva intuito in questo senso il potere evocativo e simbolico e la colloca ai piedi del suo Bacco (precisamente sotto il piede sinistro del dio) nell'omonimo dipinto, conservato oggi al Louvre.


Leonardo da Vinci, Bacco (1510-1515).

In questo caso, l'Aquilegia rappresenta il trait d'union tra il piano dell'Umano e quello del Divino, tra cui Bacco-Dioniso (il dio che risorge dalle ceneri) si muove costantemente.

Per quel che mi riguarda, coltivo la mia piantina di Aquilegia nel cortile retrostante la casa, quello più umido e ombroso. Non richiede cure particolari: come ho detto, è un'Intelligenza senza troppe pretese. Resiste a ogni inverno, a fine estate sparge i semi sul terreno (piccoli semi neri, che escono dopo "l'esplosione" dei grossi follicoli che si formano alla base del fiore) e così si espande sempre, generando in primavera fiori dai colori inaspettati.
Così ne scrivevo lo scorso anno, alla prima fioritura:

Ondeggia lenta l’aquilegia
nel vento caldo di maggio,
mossa dalle ali invisibili
dei naviganti:
pace dopo il dolore dell’inverno
e tregua dalla ricerca
dell’ordito consunto.

Ma non c’è danza o magia
che possa proteggerci
dalla luce bianca e terribile
di ogni primavera:
oltrepasseremo il canale
di acqua torbida
e saremo polvere
fra la terra arida del campo

sotto il sole.

Come sempre, la parola poetica (per quanto modesta, com'è nel mio caso!) è sempre più efficace di qualsiasi arraffazzonato commento...

Fino al XIX secolo, l'Aquilegia è stata utilizzata anche in campo erboristico, per le sue virtù calmanti, utili al sistema nervoso. Possiede altresì proprietà antisettiche, astringenti e detergenti. Se ne usano i semi, i fiori, le foglie e le radici; va tuttavia maneggiata con coscienza e competenza, poiché le parti aeree della pianta contengono una sostanza potenzialmente nociva (come accade per tutte le Ranuncolacee!).

Nome: Aquilegia vulgaris L. (detta anche, popolarmente, "amor nascosto", "fior cappuccio", "perfett amùr", "guant d'la Madona")
Famiglia: Ranuncolacee (finisco spesso a parlare di Ranuncolacee... chissà poi perché...)
Diffusione: nei boschi, nei prati, in zone rocciose e calcaree, fino ai 2000 m. di altitudine.
Descrizione: pianta perenne, alta dai 60 agli 80 cm. I fiori compaiono da maggio a luglio e possono essere di diversi colori: viola, rosa chiaro, bianchi-giallastri. La radice è fittonante.

giovedì 28 aprile 2011

Della magia antica - Parte II

I parte

La figura del mago nel mondo greco-romano

Nell'antichità greco-romana, il mago non è colui che si oppone alla religione ufficiale (come, invece, accadrà in Europa in epoca cristiana). Al contrario, il mago si relaziona direttamente con la divinità e la "parola magica" è, prima di tutto, parola divina. Allo stesso modo in cui il poeta è "invasato" dal dio (ne riceve la parola e la trasforma in linguaggio comprensibile all'uomo), il mago trasforma la parola "comune" in parola "magica" (incomprensibile ai più) e, non di rado, trascrive queste parole sulle statuette della divinità. Esistono ancora numerose tracce di simili defixiones, provenienti dai luoghi di culto della dea Demetra.
La magia, dunque, come mezzo (il mezzo più istintivo, profondo, non mediato dalla cultura "alta") per raggiungere il divino.


John Collier, La sacerdotessa di Delfi

Così almeno il mago era considerato dalla popolazione e dalla mentalità comune.
Una delle più preziose fonti a nostra disposizione in tal senso è l'orazione del retore e filosofo platonico Apuleio intitolata Apologia sive de magia e scritta in occasione del processo che il filosofo dovette affrontare intorno al 161 d.C.

Il De magia di Apuleio

Apuleio ha uno stretto rapporto con la tematica magica: fondamentale per studi e approfondimenti sull'argomento è altresì L'asino d'oro, in cui Apuleio descrive gli effetti devastanti sul protagonista Lucio (omonimo dell'autore - particolare non irrilevante) della temibile magia tessala, che saranno cancellati solo grazie all'intervento di Iside e in seguito all'ingresso di Lucio nei riti misterici dedicati alla dea.
Il De magia, al contrario, non è un'opera di invenzione, ma il resoconto del processo che Apuleio dovette affrontare, per difendersi dall'accusa di "magica maleficia", espedienti malevoli utilizzati, secondo gli accusatori (Sicinio Claro e Sicinio Emiliano), per sedurre e sposare la ricca vedova Emiliana Pudentilla e impadronirsi così del suo patrimonio.
Al di là dei fatti, il De magia risulta particolarmente importante per il ritratto che Apuleio fa del mago, calandolo nella società a lui contemporanea e definendo con precisione che cosa sia e non sia chi fa uso della maghéia.
Due sono quindi i principali assunti dell'opera:

1) la concezione popolare del mago (cui si è fatto menzione nella parte introduttiva di questo post);
2) la magia (se può essere in qualche modo accostata alla religione, come detto poco sopra) si differenzia nettamente dalla scienza e dalla filosofia.

La dicotomia fra filosofia e magia, fra filosofo (intellettuale) e vulgus (folla, popolo) è ben evidente nel De magia.
«Per Apuleio, la contrapposizione fra magia e filosofia traduce la contrapposizione fra cultura e ignoranza; e anzi, più precisamente, fra cultura urbana e ignoranza campagnola. Si tratta dunque di uno scarto sociale» scrive F. Graf a p. 81 del suo saggio La magia nel mondo antico. Con ciò, il cerchio si chiude: se la concezione popolare voleva che la magia fosse l'espressione più "autentica" del divino, ecco che risulta comprensibile come un filosofo - indagatore del divino in taluni casi - possa essere scambiato per un mago e accusato di "magica maleficia".

[Continua.]

domenica 27 febbraio 2011

Anatomia dell'irrequietezza

Mi è sempre piaciuto chiamare il percorso intrapreso ormai parecchi anni or sono (oppure, più che di "inizio", si tratta di "appartenenza"?) "Cammino", "Sentiero": immagini che rimandano al viaggio, tema (azione!) che da sempre mi è caro, poiché fin da piccola sperimento sulla mia pelle una vera e propria coazione al movimento. Sia in senso fisico (con la bella stagione, divento puntualmente irrequieta, inizio a sentirmi "prudere le gambe", pianifico percorsi, sistemo l'attrazzatura da montagna...) sia in senso figurato: chi mi conosce bene, sa che non riesco a mantenere un'abitudine per lungo tempo né a restare "ferma" in uno schema, in una routine, per più di qualche settimana.
D'estate, poi, intraprendo viaggi (per quel che consentono le mie finanze!) totalmente improvvisati, senza mai prenotare alberghi né alloggi. Prima di partire, preparo una bozza di itinerario, che poi vario in base alle esigenze o all'ispirazione del momento (interessi, suggestioni, ispirazioni subitanee) e mi fermo a dormire dove mi aggrada.
Paradossalmente (per come sono fatta) non si tratta mai di una fuga, perché conservo sempre intatta, dentro di me, la consapevolezza del ritorno: come il gigante Anteo, per prendere forza ho bisogno di allontanarmi periodicamente da casa. Anche Daniel Pennac, in uno dei suoi romanzi, scriveva qualcosa a proposito del partire per il gusto di ritornare alla base, al "porticciolo di quiete" capace di accoglierci e ritemprarci la sera.


Bruce Chatwin

Di recente, poi, mi sono imbattuta in una raccolta di saggi e raccontini di Bruce Chatwin, intitolata Anatomia dell'irrequietezza, che contiene una vera propria "teoria" sulla necessità (imprescindibile, per alcuni) di muoversi e di viaggiare. Nella lettera di presentazione a Tom Maschler di un ipotetico lavoro sui nomadi (mai realizzato), Chatwin individua (proprio analizzando la cultura e i comportamenti delle popolazioni nomadi) i fondamenti dell'"orrore del domicilio", come se questa "coazione al movimento" (perdonate la ripetizione) rispondesse a un'esigenza umana profonda, che renderebbe l'uomo più sereno e in pace con se stesso.

La Civiltà (stanziale, circoscritta nei centri abitati, che non di rado critica la cultura nomade accusandola di arretratezza) è davvero una conquista, si domanda Chatwin, «oppure la Civiltà è un accidente contro natura?» (p.97).
E ancora:
«La Civiltà letterata liberò alcuni [individui] per gli esercizi superiori della mente, per lo sviluppo del pensiero logico, della matematica, della medicina basata sull'osservazione scientifica anziché su cure a sfondo religioso ecc. [...] J.H. Breasted parla dell'"indomito coraggio dell'architetto della Grande Piramide". Però i due milioni e mezzo di blocchi di pietra vennero tirati su da manodopera in ceppi. La Civiltà è stata insediata a suon di frusta. Noi ereditiamo il carico» (p. 97).

Siamo imprigionati nella nostra "Civiltà" violenta e repressiva, dunque; che ci vuole stanziali, abbarbicati a una singola porzione di terreno, inquadrati (e questa è la civiltà moderna) secondo schemi di pensiero ben precisi.
L'alternativa nomade, invece, rappresenta la libertà della mente, dell'arte, della cultura: Chatwin sottolinea questo concetto analizzando le forme artistiche e lo sciamanesimo. E ciò spiegherebbe, dunque, per quale motivo molti di noi avvertano scorrere nelle proprie vene la necessità (vera e propria!) a muoversi. Quando le pressioni della nostra moderna società, "economica e nevrotica", si fanno insostenibili, è opportuno (consigliabile!) tornare a muoversi.
«Girovagare è una caratteristica umana ereditata geneticamente dai primati vegetariani» (p. 95).
Dobbiamo muoverci per ESISTERE nel vero senso della parola (esistere come piace a noi, nella libertà del corpo in movimento, senza restrizioni di sorta: non dobbiamo rispettare orari, scadenze, non dobbiamo essere - quando siamo in viaggio - ciò che gli altri si aspettano da noi...); per poi ritornare (perché no?) alla "tana" che ci siamo scelti. A patto, però, di sentirci liberi di ripartire quando più ci aggrada: in caso contrario, saremmo prigionieri della nostra stessa casa.

Anatomia dell'irrequietezza non è certo un libro "perfetto": la sua struttura risente dell'assemblaggio postumo, i raccontini contenuti sono abbastanza inconcludenti. Tuttavia ritengo che le riflessioni contenute nel blocco di scritti relativi all'Alternativa nomade siano basilari per qualunque viaggiatore, camminatore, esploratore. Per quanti di noi, insomma, ogni tanto si sentono spinti dalla voglia irrefrenabile di chiudere alle proprie spalle (per un tempo indeterminato) la porta di casa.


sabato 19 febbraio 2011

Del Cammino

Per Nyctea - e per la sua gatta...


Senza far piega, un personaggio in una siepe.
Aprono i favi i paesani, cercano la regina.
Si nasconde? Mangia miele? E' astutissima.
E' vecchia, vecchia, le resta appena un anno; e lo sa.
Mentre che nelle loro celle le nuove vergini

Sognano di un duello che di certo vinceranno,
C'è ancora uno strato di cera prima del volo nuziale,
Ascesa dell'assassina al cielo di cui è prediletta.
I paesani traslocano le vergini, non ci saranno uccisioni.
La vecchia regina non si mostra: è dunque così ingrata?

Io sono esausta, esausta -
Pilastro bianco in un buio di coltelli.
Sono la figlia dello stregone che non può tirarsi indietro.
Si slacciano le monture i paesani, si salutano.
Chi c'è in quella lunga cassa bianca a terra, cos'hanno combinato, perché sento freddo?

(S. Plath, The bee meeting)