domenica 27 febbraio 2011

Anatomia dell'irrequietezza

Mi è sempre piaciuto chiamare il percorso intrapreso ormai parecchi anni or sono (oppure, più che di "inizio", si tratta di "appartenenza"?) "Cammino", "Sentiero": immagini che rimandano al viaggio, tema (azione!) che da sempre mi è caro, poiché fin da piccola sperimento sulla mia pelle una vera e propria coazione al movimento. Sia in senso fisico (con la bella stagione, divento puntualmente irrequieta, inizio a sentirmi "prudere le gambe", pianifico percorsi, sistemo l'attrazzatura da montagna...) sia in senso figurato: chi mi conosce bene, sa che non riesco a mantenere un'abitudine per lungo tempo né a restare "ferma" in uno schema, in una routine, per più di qualche settimana.
D'estate, poi, intraprendo viaggi (per quel che consentono le mie finanze!) totalmente improvvisati, senza mai prenotare alberghi né alloggi. Prima di partire, preparo una bozza di itinerario, che poi vario in base alle esigenze o all'ispirazione del momento (interessi, suggestioni, ispirazioni subitanee) e mi fermo a dormire dove mi aggrada.
Paradossalmente (per come sono fatta) non si tratta mai di una fuga, perché conservo sempre intatta, dentro di me, la consapevolezza del ritorno: come il gigante Anteo, per prendere forza ho bisogno di allontanarmi periodicamente da casa. Anche Daniel Pennac, in uno dei suoi romanzi, scriveva qualcosa a proposito del partire per il gusto di ritornare alla base, al "porticciolo di quiete" capace di accoglierci e ritemprarci la sera.


Bruce Chatwin

Di recente, poi, mi sono imbattuta in una raccolta di saggi e raccontini di Bruce Chatwin, intitolata Anatomia dell'irrequietezza, che contiene una vera propria "teoria" sulla necessità (imprescindibile, per alcuni) di muoversi e di viaggiare. Nella lettera di presentazione a Tom Maschler di un ipotetico lavoro sui nomadi (mai realizzato), Chatwin individua (proprio analizzando la cultura e i comportamenti delle popolazioni nomadi) i fondamenti dell'"orrore del domicilio", come se questa "coazione al movimento" (perdonate la ripetizione) rispondesse a un'esigenza umana profonda, che renderebbe l'uomo più sereno e in pace con se stesso.

La Civiltà (stanziale, circoscritta nei centri abitati, che non di rado critica la cultura nomade accusandola di arretratezza) è davvero una conquista, si domanda Chatwin, «oppure la Civiltà è un accidente contro natura?» (p.97).
E ancora:
«La Civiltà letterata liberò alcuni [individui] per gli esercizi superiori della mente, per lo sviluppo del pensiero logico, della matematica, della medicina basata sull'osservazione scientifica anziché su cure a sfondo religioso ecc. [...] J.H. Breasted parla dell'"indomito coraggio dell'architetto della Grande Piramide". Però i due milioni e mezzo di blocchi di pietra vennero tirati su da manodopera in ceppi. La Civiltà è stata insediata a suon di frusta. Noi ereditiamo il carico» (p. 97).

Siamo imprigionati nella nostra "Civiltà" violenta e repressiva, dunque; che ci vuole stanziali, abbarbicati a una singola porzione di terreno, inquadrati (e questa è la civiltà moderna) secondo schemi di pensiero ben precisi.
L'alternativa nomade, invece, rappresenta la libertà della mente, dell'arte, della cultura: Chatwin sottolinea questo concetto analizzando le forme artistiche e lo sciamanesimo. E ciò spiegherebbe, dunque, per quale motivo molti di noi avvertano scorrere nelle proprie vene la necessità (vera e propria!) a muoversi. Quando le pressioni della nostra moderna società, "economica e nevrotica", si fanno insostenibili, è opportuno (consigliabile!) tornare a muoversi.
«Girovagare è una caratteristica umana ereditata geneticamente dai primati vegetariani» (p. 95).
Dobbiamo muoverci per ESISTERE nel vero senso della parola (esistere come piace a noi, nella libertà del corpo in movimento, senza restrizioni di sorta: non dobbiamo rispettare orari, scadenze, non dobbiamo essere - quando siamo in viaggio - ciò che gli altri si aspettano da noi...); per poi ritornare (perché no?) alla "tana" che ci siamo scelti. A patto, però, di sentirci liberi di ripartire quando più ci aggrada: in caso contrario, saremmo prigionieri della nostra stessa casa.

Anatomia dell'irrequietezza non è certo un libro "perfetto": la sua struttura risente dell'assemblaggio postumo, i raccontini contenuti sono abbastanza inconcludenti. Tuttavia ritengo che le riflessioni contenute nel blocco di scritti relativi all'Alternativa nomade siano basilari per qualunque viaggiatore, camminatore, esploratore. Per quanti di noi, insomma, ogni tanto si sentono spinti dalla voglia irrefrenabile di chiudere alle proprie spalle (per un tempo indeterminato) la porta di casa.


Nessun commento:

Posta un commento