martedì 30 marzo 2010

Della magia antica - Parte I

Come sempre, sembro scomparsa ma non lo sono!
Il nuovo lavoro ha interrotto un po' i miei ritmi di studio e scrittura; tuttavia non mi sono persa d'animo e continuo a leggere, confrontare, esaminare... per quanto i nuovi impegni me lo consentano!
L'ultima "scoperta" è stata l'interessantissimo saggio di Fritz Graf La magia del mondo antico, edito da Laterza. Un vero e proprio "gioiello", che mi ha chiarito molti dubbi sulla peculiarità della magia greco-romana.
E proprio perché sono rimasta colpita dall'intelligenza e completezza di questo testo, voglio condividere gli appunti presi durante la lettura dei diversi capitoli...



La terminologia greca


Per fare chiarezza all'interno del panorama variegato della magia antica (egiziana, greca e romana), sarà utile illustrare le diverse "famiglie" di termini utilizzati per specificare attività e peculiarità di chi praticava riti magici.
Gòes (da cui goetéia, "stregoneria") non compare prima dell'età classica, ma si suppone che abbia un'origine ben più antica, collegata al gòos, il pianto rituale: il gòes è colui che, rovesciando l'esatto significato di gòos, "fa uscire i morti dalle tombe" (cfr. Eschilo);
• parimenti antica è la parola phàrmakon, che indica sia la medicina risanatrice sia il veleno (filtro magico) letale;
• simile al phàrmacon è l'epoidé, il rimedio magico;
• il più conosciuto (oggi) termine màgos (con tutti i suoi derivati: maghéia, maghéuein...) è di origine persiana e, nell'ambito della magia antica, è una parola piuttosto recente. Presso i Persiani, il màgos era l'esperto di religione e di riti religiosi; in Grecia viene a indicare colui che pratica la maghéia, la quale a sua volta comprendeva:

- la divinazione
- i culti misterici privati
- la magia nociva o magia nera.

E' probabile che, in Grecia, la figura del màgos si confondesse con quella dell'agyrtes, indovino itinerante (spesso disprezzato dalla società e tuttavia temuto, proprio in virtù delle sue potenzialità magiche) che si occupava altresì di culti privati e di pratiche magico-religiose.

Il primo a combinare i termini goetéia e maghéia è Gorgia, nell'Elogio di Elena:

«Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell'animo e in inganni della mente».

In generale possiamo dire che la magia inizia a configurarsi come un ambito d'azione ben preciso, distinto dalla religione (sebbene non a esso opposto, come si vedrà più avanti) nel momento in cui viene a formarsi una teologia precisa e si attestano le scienze naturali: in questa prospettiva, filosofi e scienziati diverranno - almeno apparentemente - nemici agguerriti dei maghi, considerati ciarlatani e impostori. In realtà, come si avrà modo di apprendere, magia e religione (soprattutto magia e religioni misteriche) si confonderanno spesso e volentieri, creando un affresco dai contorni e dalle tinte a prima vista confusi.

La terminologia romana

A Roma, i termini magus e magia vengono mutuati ovviamente dal greco; ma ciò avviene solo molto tardi, intorno al I secolo a.C. (cfr. Catullo e Cicerone, De divinatione e De legibus).
Se vogliamo rintracciare le parole esatte utilizzate per indicare l'attività di incanto e fascinazione (più o meno nociva), dobbiamo risalire alle Dodici Tavole, la cui terminologia si tramandò senza dubbio alcuno anche in età repubblicana. Infatti, se magus e magia divennero celebri nella prosa di Cicerone e nella poesia di Virgilio, in età augustea (riprendendo in questo senso il gusto poetico alessandrino), nel corpus legislativo delle Dodici Tavole si legge:

«Ne quis alienos fructus excantassit» ("Affinché nessuno faccia scomparire con incantesimi il raccolto di un altro", tramandatoci da Seneca).

Cita altresì Plinio il Vecchio:

«Qui fruges excantassit et alibi qui malum carmen incantassit».

Da notare che si tratta in entrambi i casi di magie relative alla sottrazione dei frutti del lavoro agricolo altrui: di un vicino, di un conoscente... La legge non punisce la magia, ma il furto attuato per suo tramite. Lo stesso accadeva ad Atene, dove non esistevano leggi specifiche contro le maledizioni magiche: per questo ce ne sono pervenute in gran numero proprio dall'Attica.

Particolare importanza aveva inoltre a Roma il veneficium, unica spiegazione plausibile nei casi di mors improvisa, per utilizzare la definizione di Ariès. Ce ne parla Tito Livio (VIII, 18), raccontando della morte misteriosa e repentina di alcuni primores civitatis (uomini pubblici di spicco), avvenuta nel 331 a.C., della quale furono accusate alcune nobili matrone: costrette a bere in tribunale i veleni che presumibilmente avevano preparato e somministrato agli uomini, morirono tutte all'istante.

Al di là della terminologia usata (carmen, mala carmina, magia...), va rilevato che la magia, nella Roma antica, passò attraverso due fasi distinte:

1) in età repubblicana si distingueva fra pratiche che nuocevano alla proprietà privata o alla salute delle persone (veneficium) e l'insieme di tutti gli altri rituali magici, privi di intenzioni malefiche: fra magia negativa e magia innocua, dunque;

2) in età giulio-claudia, il delitto di veneficium (avvelenamento) viene distinto dalla magia vera e propria e condannato come crimine puro e semplice.

[Continua.]

2 commenti:

Anonimo ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Canidia ha detto...

Ti autocensuri, Narcì?

Posta un commento